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04/05/2010

Quattro citazioni

Filed under: Scritti — Daniele @ 9:07 am

“…Io amo la pace più di voi, io la pace la porterei in tutto il mondo, a costo di raderlo al suolo con le bombe e di spargere il sale sulle rovine…”
(Sabina Guzzanti nell’imitazione di Oriana Fallaci rivolta ai no – global)

Ad un giovane compositore che gli chiedeva un giudizio sul suo primo lavoro, Rossini rispose:”C’è del nuovo e c’è del bello, ma quel che è bello non è nuovo e quel che è nuovo non è bello”.

“Il tempo è la cosa più importante: esso è un semplice pseudonimo della vita stessa”.
Antonio Gramsci – lettera a Tatiana Schucht

“…Le epurazioni cominciano dai nemici e finiscono con gli amici, partono dai troppo liberi e si chiudono con i non abbastanza servi…”
Curzio Maltese a proposito del licenziamento Mentana dal tg5.

Incipit

Filed under: Scritti — Daniele @ 9:04 am

Fino a poco tempo fa, l’insegnamento della scenografia e della scenotecnica era esclusivamente svolto nelle accademie di belle arti. Da qualche tempo non è più soltanto prerogativa di questo ciclo di studi, ma, con l’autonomia finanziaria ed amministrativa degli atenei, molte facoltà e molti dipartimenti hanno attivato (alcuni a scopo esclusivamente pubblicitario di aumento di offerta formativa) corsi sul teatro e sulla scenografia.
Qualche ateneo ha anche attivato, praticamente sottraendoli all’esclusività delle stesse accademie, dei corsi di “produzione dell’arte” e di “scienze del teatro”, approfittando tempestivamente (e forse anche un po’ subdolamente) dell’incancrenita ed annosa situazione che vedeva queste ultime prive di riconoscimento del livello universitario (unico caso in tutta Europa) e quindi dei mezzi normativi e finanziari per essere, con un termine che non amo, “competitive”.
Ora sembra che anche questo problema, lentamente, si stia risolvendo; ma non soltanto sul piano legislativo: sembra che con la costituzione dell’AFAM, e cioè dell’Alta Formazione Artistica e Musicale, il prestigio di queste istituzioni (Accademie e Conservatori) finalmente sia stato riconosciuto da tutto il mondo accademico (cosa mai successa in passato…). Una domanda (retorica naturalmente): ciò doveva accadere soltanto nell’anno di grazia 2003?
Sono indispensabili, a questo punto, una serie di considerazioni per poi valutare se e in che modo hanno delle attinenze.

Partiamo da un semplicissimo dato di fatto: quasi mezzo secolo fa ad un ragazzino (parlo anche dal punto di vista personale) che manifestava, dopo la scuola dell’obbligo, l’idea di frequentare una scuola artistica, veniva quasi deriso e comunque fortemente dissuaso proponendogli come contropartita gli “studi scientifici” come modello di formazione di future, importanti occupazioni e di prestigiose posizioni sociali. L’arma deterrente era la consueta frase:”Ma che farai dopo? L’artista?” con una sorta di intonazione fra l’incredulo e lo sprezzante. La supposta “scientificità” che ha contraddistinto il nostro secolo aveva quindi già monopolizzato l’immaginario culturale sociale a tal punto da diventare quasi il simbolo di due mondi opposti. Questo stereotipo sembrava dovesse crollare almeno sotto i colpi di una serie di studi “scientifici” sulla percezione e sull’immagine e sul loro ruolo nel campo educativo e didattico.
Significative sembrano essere a questo proposito le parole di uno dei più grandi studiosi mondiali in questo campo, Rudolf Arnheim, che negli anni sessanta, nel suo Visual thinking ( Il pensiero visivo – La percezione visiva come attività conoscitiva) scriveva:”L’arte risulta negletta perché si fonda sulla percezione, e la percezione è oggetto di disdegno perché non si ritiene coinvolga il pensiero (…) Negligere l’arte non è che il simbolo più tangibile del diffusissimo stato di disoccupazione dei sensi in ogni settore dello studio accademico (…) Vi è una tendenza a trattare l’arte come una zona indipendente di studio, ed a presumere che l’intuizione e l’intelletto, il sentimento ed il ragionamento, l’arte e la scienza, coesistano ma non collaborino (…) Non vi è dubbio che nel giardino dell’infanzia i bambini più piccoli imparino vedendo e maneggiando forme piacevoli, e inventino le proprie stesse configurazioni sulla carta o nella creta, pensando attraverso il percepire. Ma, con la prima classe della scuola elementare, i sensi cominciano a perdere ogni prestigio educativo. Sempre più, l’arte è considerata un tirocinio in attività gradevoli, un divertimento, un rilassamento mentale. E man mano che le discipline dominanti sottolineano con maggiore rigore lo studio delle parole e dei numeri, la loro parentela con l’arte si va oscurando, e le arti si riducono a un di più, per quanto desiderabile; sempre minore è il numero delle ore settimanali che è possibile sottrarre allo studio di quegli argomenti che invece, secondo l’opinione di tutti, hanno importanza vera. E al momento in cui la competizione per la conquista del diritto a frequentare l’università si fa acuta, rare sono le scuole superiori che insistono nel riservare alle arti il tempo occorrente a conferire una qualche utilità alla pratica di esse. Ancor più rare sono le istituzioni presso le quali un impegno nel campo artistico viene giustificato consapevolmente, in base alla presa di coscienza del fatto che esse contribuiscono in misura indispensabile allo sviluppo di un essere umano ragionante ed immaginante. Quest’offuscamento educativo persiste all’università, ove lo studente d’arte è considerato un individuo che persegue abilità distinte ed intellettualmente inferiori, sebbene qualunque persona “superiore” in una delle aree accademiche di maggiore reputazione venga incoraggiata a trovare una “ricreazione salutare” nello studio artistico, durante alcune tra le sue ore libere. Le arti nelle quali si preparano e in cui si diplomano l’allievo ed il maestro non comprendono ancora l’esercizio creativo degli occhi e delle mani come componente riconosciuto di un’educazione superiore (…) In quali modi ci si può aspettare che le arti favoriscano altri settori dello studio? E, per converso, come può il lavoro svolto in settori non artistici contribuire ad arricchire lo studio delle arti? Cominciamo a trovare una risposta quando ci ricordiamo che non c’è quasi insegnamento e apprendimento in qualsiasi settore di studi, senza l’uso pratico delle immagini (…) Una buona illustrazione anatomica è un insegnante. Essa mostra non soltanto il groviglio di muscoli e di ossa che potrebbe colpire l’occhio del percettore inesperto, ma chiarisce anche le interazioni funzionali tra le varie componenti che fanno agire il corpo (cosa che nessuna foto è in grado di fare…n.d.r.) (…) I grafici che illustrano relazioni logiche o sociali, correlazioni scientifiche o organizzazioni commerciali traducono reticoli astratti in pattern percettivi direttamente visibili e pertanto più facilmente comprensibili. Una conseguenza di questo intimo nesso tra visione ed astrazione è che la pratica dell’arte può essere direttamente utile a chi affronta problemi di composizione in aree del tutto diverse.”
Sembra quindi che Arnheim auspichi una più diretta collaborazione, quasi una simbiosi tra i percorsi formativi scientifici e quelli artistici.
In altre culture ed in altre società, queste parole e tutta l’organizzazione della ricerca e degli studi cui sottendono, avrebbero sviluppato, seppure lentamente, un nuovo modo di concepire la formazione, l’insegnamento, lo studio. Ma non hanno smosso assolutamente nulla. Né nella cosiddetta opinione pubblica, né tanto meno nell’organizzazione degli studi sia a livello ministeriale (e a questo purtroppo siamo tristemente abituati) sia a livello di organizzazione della didattica e dei saperi…Anzi! La sempre più diffusa tendenza a prendere in considerazione quasi esclusivamente l’applicazione utilitaristica, funzionale, commerciale e pratica degli studi, ha ancora di più relegato gli studi artistici, oltre alla ricerca pura, a ruoli definitivamente accessori ed opzionali.
Dopo quasi mezzo secolo, ancora oggi chiedo ai miei studenti d’Accademia, se sia stata una scelta facile, quella artistica. Nella quasi totalità dei casi non è cambiato assolutamente niente: ancora le stesse retoriche domande e le stesse perplessità di sempre…

L’arte ha ancora, anche ai giorni nostri, quest’aura di ermetica, incomprensibile “magia” e gli artisti altro non sono che contemporanei stregoni che ne possiedono le chiavi ma che custodiscono in qualche modo la sua impenetrabilità. E quindi la responsabilità del suo isolamento è anche un po’ loro…Ancora Arnheim: ”Forse all’arte si è impedito, nella nostra epoca, di adempiere alla sua più importante funzione: e ciò, con l’onorarla troppo. L’arte è stata elevata al di sopra del contesto della vita quotidiana, esiliata per glorificarla, imprigionata, in case-scrigno che ispirano timore.”

03/05/2010

La stupidità umana

Filed under: Scritti — Daniele @ 10:12 am

Si sa che la stupidità umana e non il buon senso, è ciò che è al mondo più diffuso.
La nostra epoca è poi quella che sembra abbondare più di ogni altra di persone idiote e questo per almeno tre ragioni. Innanzitutto l’aumento della popolazione genera in proporzione un aumento di persone cretine; in secondo luogo la maggior diffusione delle conoscenze ci permette di individuare con maggior sicurezza l’idiota tra noi; in terzo luogo l’ormai diffusa e consolidata pratica delle democrazia permette sempre di più a persone stupide di avere un potere e una visibilità mai prima conosciute.
Insuperato rimane, a tale riguardo, lo studio di Cipolla e l’individuazione delle leggi della stupidità umana. Ricordiamo le sue tesi: gli uomini si distinguono in uomini intelligenti (quelli che producono del bene a se e agli altri), in banditi (quelli che producono del bene a sé e del male a gli altri) e gli stupidi (quelli che producono del male a sé e agli altri). La terza categoria è di gran lunga la più numerosa ed imprevedibile: la logica seguita dallo stupido è incomprensibile dalla persona intelligente che non sarà mai in grado di prevederne e prevenirne le nefaste azioni.
Ciò che maggiormente ci colpisce, però, se poniamo attenzione alla nostra situazione contemporanea, sono alcuni corollari: “i grandi personaggi carismatici/demagoghi moltiplicano/attirano gli stupidi trasformandoli da cittadini pacifici in masse assatanate “quando la maggior parte di una società è stupida allora la prevalenza del cretino diventa dominante ed inguaribile.
E dunque le tesi conclusive:
1) gli stupidi danneggiano l’intera società
2) gli stupidi al potere fanno più danni degli altri.
3) gli stupidi democratici usano le elezioni per mantenere alta la percentuale di stupidi al potere.
4) gli stupidi sono più pericolosi dei banditi perché le persone ragionevoli possono capire la logica dei banditi.
5) i ragionevoli sono vulnerabili dagli stupidi perché:
– generalmente vengono sorpresi dall’attacco
– non riescono ad organizzare una difesa razionale perché l’attacco non ha alcuna struttura razionale.
Perché dobbiamo ritenerci ancora più preoccupati oggi?
A parte il numero crescente degli stupidi in circolazione, proporzionale alla crescita delle popolazione, il progresso tecnologico cui assistiamo è tale da poter far crescere in modo esponenziale sia il numero degli individui idioti sia il loro potere e pertanto la loro capacità di recare danno agli altri. Un individuo vive, fin dai suoi primi istanti, immerso in un mondo tecnologizzato. Impara sin dai primi suoi passi ad usare strumenti e forme di comunicazione tecnologiche di cui ignora totalmente il funzionamento. Un bambino che in prima elementare impara la logica della costruzione di un triangolo attraverso lo spostamento virtuale su un computer di tre rette colorate è un bambino che avrà sviluppato una velocità mentale e una elevata coordinazione occhio cervello, ma che avrà perduto totalmente l’uso creativo della manualità e la coordinazione tra mano e cervello. Quel bambino crescerà con una capacità di sottomissione intellettuale, abilissimo nelle risposte agli stimoli virtuali precostituiti da una logica superiore ma totalmente inadatto a escogitare da solo domande sul senso e sul significato di ogni processo che compie. Pronto per essere inserito nel mondo del lavoro, per essere un buon consumatore e un buon telespettatore. Ma è un destino, purtroppo, che ci sta coinvolgendo sempre più. Fino a qualche decennio fa l’umanità occidentale possedeva un livello tecnico scientifico che procurava agi e comodità, ma di cui si era ancora padroni, in quanto si comprendevano e si conoscevano gli strumenti usati. L’uomo sapeva com’era costruita la casa in cui abitava, perché la lampada a petrolio faceva luce. Se andava da un medico comprendeva i termini che usava e anche il senso delle diagnosi che faceva. Conosceva i principi di coltivazione e il funzionamento degli strumenti tecnologici che usava: l’orologio, l’aratro, il trattore, ed anche il motore a scoppio e il telefono. Il sapere era depositato come un tesoro e tramandato come un’eredità preziosa di generazione in generazione. Gli anziani godevano per questo di grande considerazione e stima in ogni strato sociale. “Dai miei vecchi ho imparato che gli alberi da frutta si potano così. Se faccio in questo modo, come facevano mio padre e mio nonno, l’albicocco, se Dio vuole, farà frutti”.
Ma che cosa ce ne facciamo di un tal sapere oggi? Nel mondo cibernetico, robotico, computerizzato, una persona di quarant’anni deve imparare da una di venti. Non c’è deposito di sapere. Ma consumo: il sapere si consuma e si deve consumare come una saponetta. Tutti noi usiamo il computer. Sto scrivendo in questo momento con un programma di video scrittura. Ma come funziona il mio computer? Secondo quale principi agiscono il mio hardware e il mio software? Non serve saperlo. Non abbiamo tempo. Non è utile. È assurdo. Ci preoccupiamo dei virus informatici. Ma come funzionano?Tutti noi sappiamo cos’è il PIL. Ma come si calcola? Sappiamo cos’è un sms, ma come funzionano? E i dvd? Il microoonde?
Non servono simili domande. Ci basta un buon manuale di istruzione che ci permetta di agire nel minor tempo possibile.
Faremo così anche con gli organismi geneticamente modificati? Con le tecniche di fecondazione artificiale? Di clonazione?
“Idioti abbastanza preparati” è la definizione proposta da Fernando Savater.
“O per abbreviare, sia pure in modo un pochino idiota: I.A.P. Uso il termine «idiota» nell’accezione più aderente alla sua etimologia greca: persona carente di interesse civico e della capacità di esplicare le attribuzioni del cittadino.
In uno dei suoi ultimi libri, il venerabile John Kenneth Galbraith assicura, con cognizione di causa, che «tutte le democrazie attuali vivono nel timore permanente dell’influenza degli ignoranti».
Sono convinto che, per «ignoranti», egli non intenda le persone che non conoscono l’ubicazione geografica di Tegucigalpa o non sanno chi fosse il padre di Chindasvinto, perché in questo senso saremmo tutti piuttosto ignoranti (per questo genere di carenze ci sono le enciclopedie o le banche dati).
Gli ignoranti di Galbraith, quelli che io chiamo «idioti», non sono tanto inadeguati accademicamente quanto malformati civicamente: non sanno esprimersi in modo pertinente su questioni di tipo sociale, non comprendono le domande degli altri per quanto intelligibilmente formulate, non sono capaci di discernere in un discorso politico quello che ha sostanza cerebrale e quello che è mera oratoria demagogica, non percepiscono i valori che vanno condivisi e quelli dai quali è invece lecito – e talvolta doveroso – ribellarsi.
Intellettualmente restano sempre dei parassiti o, peggio, dei predatori”.
L’ignoranza, l’inesperienza, l’errore non sono la stupidità. La stupidità consiste nella sufficienza, nel dogmatismo, nell’impostura delle nostre conclusioni, nel cinismo che accompagna le nostre scelte sbagliate, nell’arroganza di chi celebra la propria incapacità e la propria ignoranza. La stupidità porta gli uomini a glorificare tutto quello che passivamente si approva, a rendere omaggio alla mediocrità, bandendo come pericolosa e sciocca l’originalità e autonomia di pensiero.
Non solo stupidi, allora, perché incapaci di operare scelte razionali e moralmente deliberate rispetto ad un obiettivo posto come bene singolare e collettivo – ma anche idioti perché eleviamo questo nostro stato a valore assoluto.
Siamo al punto di costituire una nuova ripartizione, non solo sociale ma antropologica: da una parte una stretta élite di specialisti – domini rationales – dall’altra una massa di ignoranti – servi rationales. Ma questa nuova massa di schiavi, necessario specchio complementare dei nuovi padroni, non ha progetti di rivolta, né sensi di colpa da sublimare. Contenta di sé e del suo stato, innalza i falsi sentimenti e la falsa commozione a valori assoluti.
Ecco a voi il mondo degli idioti sentimentali.
Non è idiota provare sentimenti: un sentimento, per definizione è un moto che nasce indipendentemente dalla nostra volontà, se non, talvolta, contro la nostra volontà. È idiota innalzare il sentimento a valore: non proviamo sentimenti, vogliamo “sentire” e in questo modo il sentimento diventa un’imitazione del sentimento, solo una sua rappresentazione da ostentare e di cui vantarci. Non è un caso che l’idiota sia sentimentalmente isterico.
Come nuovi Narcisi ci specchiano e adoriamo l’immagine dei nostri sentimenti negli specchi in cui essi si riflettono. Come isterici piangiamo alla TV di fronte alla ripetizione dei “carramba che sorpresa”, o dei “c’è posta per te”, litighiamo, soffriamo, sorridiamo con “i tempi moderni” con “tra moglie marito”, o con i “grandi fratelli” o i “survivors”.
Tutte storie vere, non perché realmente accadute: vere perché rappresentate.
Amiamo e crediamo nella spettacolirzzazione dell’immagine dei fatti, mentre non ci interessano minimamente i fatti (per questo adoriamo le cartine geografiche con i progetti delle grandi opere dei candidati politici, i fondali azzurrino rassicuranti dei loro comizi e la falsa claque di ragazzi e ragazze modello selezionati, curati, pettinati, vestiti e addestrati all’applauso).
E’ l’illusione che cerchiamo non la realtà. Anche nel momento in cui cerchiamo di colmare l’abisso di vuoto spirituale che ci concerne con illusioni di libertà o di assoluto che diano senso e significato al nostro destino di schiavi. Adoriamo nuove divinità, “angeli a buon mercato” custodi degli idioti. Poco importa se nei rotocalchi o nei programmi televisivi vengono definiti come “pratiche New Age”, si tratta comunque di esercizi di spiritualità perfettamente compatibili con l’universo Mac Donald’s, quelle forme apparenti di salvezza interiore ricercate nell’anima e nel corpo dagli idioti: manager, uomini e donne in carriera, impiegati, liberi professionisti, casalinghe, l’insieme cioè delle differenti forme della moltitudine di uomini e donne produttivi per l’era della tecnologia e del disincanto, che praticano Yoga, tre volte la settimana dalle sette alle otto, o ribirthing, o meditazione orientale, ogni prima domenica del mese. Consumatori quotidiani dei prodotti degli ipermercati integrati con quelli delle erboristerie – supermercati della salute e della salvezza. Sani isterici che si curano con i fiori di Bach, con l’aromaterapia, la cromoterapia a seconda delle ultime indicazioni dei giornali specializzati. Perché c’è una specializzazione anche nell’idiozia.
Questo mondo degli idioti non crede affatto nella presenza di entità divine provvidenziali, ma rimane affascinato dalle immagini televisive che propongono presunti spettacolari interventi di angeli, sempre “all’ultimo minuto”, secondo la logica del genere. È un mondo che fa finta di credere che la vita che viviamo abbia ancora margini per la presenza di un soprannaturale che possa incidere e modificare il corso del nostro destino più del WTO, del FMI o della Monsanto.
Fabrizio Meni

Tutto ciò che si può produrre di bello…anche inconsapevolmente

Filed under: Scritti — Daniele @ 10:06 am

Treno. Pensieri leggeri che passano veloci, senza una precisa riflessione, veloci come le immagini che scorrono sul finestrino e subito scompaiono.
Un’immagine si associa al ricordo di una frase e forse l’una spiega l’altra.
Immagine: nei pressi di Verona, dal treno si scorge l’esterno di una fonderia; spesso ne escono fumi e autocarri; all’interno bagliori. All’esterno un grande carroponte giallo sovrasta una zona di materie scure di cui non si capisce subito la natura; sembrano scorie, pezzi simili al carbone: sono scure ma non nere, uno scuro profondo, con riflessi violacei affascinanti; la sensazione è quella di una fossa, una sorta di mare tenebroso, sicuramente sortito dal fuoco e subito raffreddato, spento, combusto. La grande gru che gli sta sopra accende il suo giallo, energico e luminoso nel contrasto, come il fuoco che ha combusto la materia. Quest’immagine è potente ed affascinante al tempo stesso: ne sono rapito. Nessuno ha creato volontariamente, volutamente quell’immagine e quel luogo; anzi: è forse frutto della casualità, dettata da necessità, dal caso o forse anche dall’insipienza, ma ne sono sedotto.
La frase: chissà perché, forse in cerca di contrasti, mi torna in mente ciò che ha detto una mia amica musicista, che non suona più il pianoforte perché non si sente all’altezza di grandi interpreti, di talentuose tecniche, di sublimi coloriture… Ma qual’è il metro per misurare tutto ciò? E se una limitata esecuzione, anche un errore tecnico, un banale passaggio, suggerisse una, una sola emozione all’ultimo e più distratto degli ascoltatori, allo stesso modo in cui la veloce immagine della fonderia ha affascinato l’ultimo dei distratti passeggeri? Il silenzio, il non suono, non sarebbe forse un’emozione persa? Per tutti?
Residui combusti e note a perdere… due possibili bellezze probabilmente sprecate.

Scenografia teatrale fra studio e professione

Filed under: Scritti — Daniele @ 10:03 am

SIB 2008

Invitato dall’amico Paolo Felici, direttore dell’unica rivista specializzata di settore che ringrazio, cercherò di fare il punto sullo stato della scenografia teatrale italiana sia sul piano della formazione, sia su quello della professione, cercando di chiarire, probabilmente anche a me stesso, una serie di segnali di diversa natura che sono di difficile interpretazione, ma principalmente di allarme, in un campo, quello dell’allestimento scenico, in cui il nostro paese e la nostra cultura soprattutto, hanno sempre primeggiato.
Vorrei partire dalla formazione, settore che conosco bene, insegnando scenografia e scenotecnica da ben ventidue anni.
Come sappiamo, lo studio della scenografia viene impartito principalmente nelle Accademie di Belle Arti, ambito decisamente rivolto alle arti liberali, in cui tecnica, messaggio, espressività, e tutte le altre componenti del processo creativo, hanno pochissime mediazioni e relazioni con la prassi, se non quelle decise o adottate o pensate liberamente dall’artista.
La scenografia ha, come ben sappiamo, natura decisamente diversa: si sommano alle precedenti componenti specificamente creative, anche processi che riguardano la storia, la cultura, la drammaturgia, il tempo, una particolare metodologia tecnica, il luogo ed il suo rapporto con lo spettatore ed altro ancora. E’ un apprendimento difficile, complesso, alla stessa stregua del suo insegnamento: non è affatto facile insegnare scenografia, anche se molte facoltà universitarie ne hanno improvvisato dei corsi, affidandoli a figure, spesso rappresentate da architetti affermati e competenti, che tutto ciò ignorano o conoscono molto approssimativamente.
E’ chiaro che per tutti gli aspetti elencati in precedenza la specifica competenza nel campo scenografico può essere accreditata unicamente ad uno scenografo, ad un professionista della scenografia, data la concomitante assenza quasi totale di una bibliografia di riferimento: non esistono libri che parlano di scenografia se non qualche sparuta monografia su scenografi o sulla storia dello spazio scenico. Mancano gli studiosi di scenografia. Mancano gli esperti, gli appassionati, i critici…Un’ancora di salvezza, la sola che abbiamo oggi per un prezioso aggiornamento, è rappresentata dalla rivista “the scenographer” citata all’inizio, alla quale dobbiamo, fra l’altro, questa lodevole iniziativa, ma sembra che il mondo accademico, e, di riflesso, quello studentesco soprattutto italiani (in altri paesi esiste un interesse decisamente maggiore), poco apprezzino lo sforzo di questa pubblicazione, che in altri settori scientifici ed artistici potrebbe rappresentare un prezioso punto di riferimento.
Lo stesso discorso naturalmente vale per la scenotecnica, che ancora viene insegnata come materia accessoria o complementare, se non addirittura assente, come in certi corsi universitari di specializzazione di recente formazione, dimenticando che ormai scenografia e scenotecnica sono praticamente coincidenti nella contemporaneità teatrale (e lo sono sempre state, a monte dell’ideazione, anche nella progettazione…).
Dicevo che solo uno scenografo dovrebbe insegnare scenografia teatrale: aggiungerei anche che, fra tutti gli scenografi, solo una parte potrebbe essere adatta all’insegnamento, compito che richiede ancora altre, diversificate caratteristiche che sarebbe lungo elencare (il rischio, come per l’arte, è una sorta di plagio diffuso….).
Ma il punto non è ancora questo.
Come primo dato, nella mia personale esperienza, ho costatato che nella maggior parte dei corsi di scenografia, più che l’aspetto progettuale, funzionale e drammaturgico, viene invece privilegiato l’aspetto principalmente compositivo–visivo e questo proprio per la naturale propensione verso quello estetico, così caro alle accademie. Ai nostri studenti manca il contatto con gli altri colleghi discenti delle discipline dello spettacolo: registi, attori, ballerini, musicisti, drammaturghi, come già aveva sottolineato Franco Mancini addirittura quasi cinquant’anni or sono.
Da ciò deriva il fatto che i famosi “bozzetti” e “teatrini” che si vedono circolare nelle aule di scenografia (a parte la loro scarsa propensione a diventare vera e propria scena funzionante soprattutto registicamente…), presentano dei rimandi storici, che proprio a causa della loro specifica natura basata su un virtuosismo “manuale” principalmente grafico-pittorico, illusorio, possono essere accostati al massimo a periodi storico-teatrali relativi ai primi decenni del novecento, se non a quelli ottocenteschi: sembra quasi che il ‘900 e la contemporaneità non siano mai esistiti….Sembra che tutto si fermi ad Appia: i contenuti de “Il teatro e il suo spazio” di Peter Brook (1968) paiono quasi irraggiungibili.
Si hanno quindi degli strani fenomeni fra gli studenti: di giorno, nelle aule, imparano i metodi ed i contenuti di una scenografia quasi ottocentesca, d’immagine, di ricostruzione pedestre, anche se “artistica”; la sera, poi, quando obbedienti alle raccomandazioni dei “prof”, vanno a vedere uno spettacolo contemporaneo, non capiscono più le distinzioni fra regia, scenografia, scenotecnica, illuminotecnica, attrezzistica, trucco e tutto ciò che concorre alla complessiva immagine dello spettacolo (perchè è solo qui che la scenografia acquista il suo vero valore e la sua funzione…), di “quello” specifico spettacolo; addirittura la performance viene sempre meno spesso presentata in un teatro: si scelgono, come più interessanti ed adatti, luoghi che hanno altri tipi di fascino, e questo la dice lunga anche sulla capacità di rinnovamento e flessibilità operativa e funzionale del teatro inteso nella sua accezione puramente architettonica.
Ecco un altro punto: ci ostiniamo a far riferimento ad una tecnica che non esiste più, se non nel buon, vecchio manuale del Mello, che resta ancora indispensabile, ma come conoscenza storica, molto meno come strumento di accesso alla pratica contemporanea.
E poi, non ultimo per importanza, il contatto col luogo e con il “fare” performativo: nella formazione e nella specializzazione, sono completamente assenti le occasioni per capire da vicino come funzioni uno spettacolo o una messa in scena. Non c’è alcun rapporto fra le istituzioni di istruzione e quelle dello spettacolo: la maggior parte delle lezioni teorico-visive non hanno nessuna possibilità di trovare applicazione, a parte qualche isolato caso particolare, a nessun livello della pratica teatrale.

Tutto viene affidato quindi alla personale esperienza, dopo il ciclo di studi specifici, ed alla buona sorte di trovare un qualsiasi modo per mettere finalmente in pratica le cose imparate (fra parentesi l’iscrizione all’Ufficio collocamento speciale dello spettacolo come scenografo, non richiede alcun titolo di studio specifico: chiunque vi si può iscrivere…).

Ma che possibilità ha, una volta terminati gli studi, un giovane neo laureato in discipline progettuali dello spettacolo?

Lasciando perdere chi intraprende altre vie ed altre professioni, quando è fortunatissimo, riesce a diventare una di quelle figure chiamate “assistenti”, divise, nella maggior parte dei casi, fra compiti di servilismo domestico-grafico e “galoppinaggio” fra ditte e luoghi diversi, alla ricerca, spesso, di “capricci”, cose che non si trovano, ammesso che esistano (e sembra essere comunque, questo, un percorso, quasi sempre a titolo gratuito, necessario per imparare…).
Quando è meno fortunato, comincia a darsi da fare per qualche piccola compagnia semiamatoriale letteralmente impazzendo, assalito da problemi che non ha mai affrontato (i principali dei quali sono naturalmente economici e tecnici), ma soprattutto in preda a registi improvvisati, che al massimo hanno fatto qualche corso di recitazione e che non sanno neppure prefigurare nella loro testa le idee grafiche che vengono loro presentate (non per colpe loro, ma perchè non hanno nessuna nozione o intuizione di tipo visivo…). In nessun altro campo del sapere e della cultura, infatti, vi è da una parte ignoranza visiva, e dall’altra, un’ingerenza così massiccia come nell’arte in generale e nella scenografia in particolare: tutti si sentono in grado di dare dei “preziosi consigli” o semplicemente accurati giudizi estetici; ognuno toglierebbe o aggiungerebbe qualcosa; la competenza specifica dello scenografo non viene neppure presa in considerazione tanto è vero che mentre una persona comune, anche di media cultura, conosce bene il termine “regia”, il termine “scenografia” viene scambiato sovente per “sceneggiatura” o addirittura “coreografia”. A ciò si aggiunge anche la normativa: incredibilmente un progetto scenografico non è neppure tutelato dal diritto di immagine e d’autore… E’ un riflesso dell’incultura e dell’ignoranza rebound del nostro tempo…
Fino a qualche anno fa, qualche possibilità di lavoro era offerta dal campo della realizzazione scenografica: molti laboratori di pittura, scultura e di scenotecnica ricorrevano a prestazioni più o meno occasionali di “manodopera specializzata” per far fronte ai numerosi impegni che in particolari periodi dell’anno (a causa di concomitanti ed imminenti stagioni teatrali) venivano assunti. Ora, molti ateliers di scenografia hanno chiuso i battenti, non solo quelli piccoli, ma anche grossi e storici laboratori, e quelli rimasti si rivolgono sempre più spesso ai mercati, più proficui e continui, della pubblicità, degli stands fieristici ed espositivi o ai parchi a tema o anche al settore dell’intrattenimento e l’antichissima arte del pittore scenografo si sta estinguendo quasi completamente.
Mai come in questo periodo le occasioni di esercitare questa bellissima professione a livelli medi o medio alti sono praticamente prossime allo zero.
La mancanza di fondi da destinare alla scenografia, in generale, ci costringe a vedere letteralmente e simbolicamente “nero”: sempre più spesso vediamo spettacoli teatrali montati su un impianto di quinte e fondali neri; opere liriche date in forma di concerto; pièces teatrali che nella maggior parte dei casi hanno uno o due protagonisti e non hanno scena.
Ma è così poco significativa la parte visiva di uno spettacolo?

Per contro (è paradossale e spesso incomprensibile…), quando grandi organizzazioni teatrali o culturali decidono di investire sull’allestimento scenico (spesso consorziandosi e coproducendo), si affidano (per “andare sul sicuro”, per non rischiare o semplicemente per mancanza di competenza…) alla solita “gerontocrazia scenografica”, una sorta di piccola accolita di notissimi, ricchissimi, protetti (dalle agenzie) e potenti scenografi (anche se peraltro capaci e talentuosi) che, per il loro spettacolo e per il loro cachet, letteralmente rastrellano tutte le risorse economiche dell’evento o della stagione, lasciando terra bruciata ai pochissimi emergenti che hanno l’avventura di lavorare dopo di loro.
Il doppio risultato è che agli allestimenti scenici viene sempre più spesso imputata la causa degli eccessivi costi di uno spettacolo, (che, per contro, dati alla mano, rappresentano forse una delle spese minori) e nel panorama della scenografia italiana i giovani non hanno modo di dimostrare non solo il loro valore, ma spesso anche lo spirito innovativo che portano come loro bagaglio generazionale.
Troppo “nera” questa visione? Probabilmente.
Ma l’amarezza di queste mie constatazioni trae origine soprattutto dal genuino entusiasmo che vedo animare i volti di molti bravi studenti dotati e capaci, entusiasmo che vedo poi progressivamente spegnersi nel giro di qualche anno, dopo che l’idealismo e la mitizzazione del mondo teatrale lasciano il posto ad una delusione diffusa, causata da una lotta pagata cara e, sempre più spesso, persa.

Che fare quindi per dare un significato positivo all’analisi ed essere quindi propositivi?

Premesso che ovviamente nessuno ha la verità in tasca, i cambiamenti dovrebbero riguardare piani e competenze diversificati, da quello istituzionale a quello sociale a quello più propriamente professionale.
Innanzitutto l’insegnamento della scenografia dovrebbe, a mio giudizio, essere impartito in istituzioni specialistiche che affrontino i temi dello spettacolo nelle sue componenti principali (assieme a regia, drammaturgia, musica, balletto, recitazione, canto, tecnica ecc.), con un diretto aggancio al mondo della produzione artistica (teatrale, cinematografica, televisiva e performativa), almeno nel periodo di studio finale, creando figure che si occupino anche degli aspetti storico-critici specifici, naturalmente.
Questo consentirebbe altresì di sviluppare una fase di ricerca (indispensabile) e di aggiornamento soprattutto per quanto riguarda i rapporti con le nuove tecnologie, convergendo verso un mondo espressivo maggiormente legato alla contemporaneità, pur non rinnegando la storia, sia nei contenuti sia nelle molteplici forme e contaminazioni.
Favorire la nascita e l’apertura pubblica di centri di documentazione, archiviazione ed aggiornamento di tutti gli spettacoli che vengono prodotti, in modo che diventino patrimonio educativo comune il più ampio ed il più diffuso possibile.
Avviare da subito iniziative convergenti che portino alla tutela delle competenze (di tutte le competenze, una sorta di quello che con un brutto termine viene chiamato “albo” professionale) e soprattutto all’allargamento anche in nuovi settori dello spettacolo nel suo insieme, del diritto d’autore e di tutela di immagine.
Attuare una politica culturale ed educativa che oltre a privilegiare ogni aspetto relativo alle scienze, consenta anche alle arti, comprese quelle dello spettacolo, di diventare patrimonio indispensabile del sapere e testimonianza di cultura sociale (attualmente lo sono solo a parole).
Potrebbero essere moltiplicate tutte le iniziative che portino in qualche modo a rendere pubblici (quasi concorsuali, o quantomeno maggiormente competitivi) gli affidamenti di allestimenti scenici o almeno di quelli più importanti (questo già avviene nel campo della musica, del canto e del balletto): ciò consentirebbe di calmierare i prezzi e di avere un notevole spettro di scelta dell’allestimento sia sotto il profilo dei costi che su quello dei contenuti. Oppure trovare delle formule che premino (economicamente) tutte quelle istituzioni che in qualche modo favoriscano la scoperta di nuovi talenti in campo progettuale scenografico tenendo ampiamente conto principalmente del rapporto prezzo/qualità.
Tutto ciò comporterebbe anche e soprattutto la crescita ed il moltiplicarsi della specifica competenza di figure specialistiche anche nei quadri istituzionali: i responsabili di tutti i settori relativi al mondo dell’allestimento dovrebbero essere individuati sulla base di specialistici saperi che gli istituti, sopra accennati, dovrebbero saper e poter formare.
Tutta la cultura dello spettacolo ne trarrebbe un cospicuo beneficio e probabilmente consentirebbe quella crescita del gusto che certe forme di pessimo intrattenimento, soprattutto ultimamente, hanno notevolmente abbassato, se non imbarbarito.

Daniele Paolin

Corriere: il “caso” Accademie

Filed under: Scritti — Daniele @ 9:59 am

IL CASO
Accademia di Belle Arti di via Ripetta
Allievi in fuga, degrado e liti tra i docenti


Troppi professori (uno per 10 studenti) e materie astruse


Il grande pittore ma­nierista Federico Zuccari, che nel 1593 fondò la prestigiosa Accade­mia di San Luca, antico germe del­la moderna Accademia di belle arti di Roma, non avrebbe mai pensato che quattro secoli più tardi si sareb­be arrivati a questo punto: profes­sori che litigano, iscritti che dimi­nuiscono a vista d’occhio, attività didattica nel marasma. E neppure avrebbe potuto immaginare in qua­le modo incredibile la sua eredità, un tempo fiore all’occhiello del­l’istruzione artistica italiana, sareb­be precipitata in un caos tale da rendere ormai inevitabile la resa dei conti. Nonostante le scontate resistenze burocratiche. Due anni fa (ministro dell’Uni­versità era Fabio Mussi) viene no­minato alla presidenza dell’Accade­mia di belle arti di Roma Cesare Ro­miti. Ma appena entra nello stabile ottocentesco del Ferro di cavallo a via di Ripetta, dove ha sede l’Acca­demia, l’ex amministratore delega­to della Fiat (oggi presidente d’ono­re di Rcs Mediagroup) si mette le mani nei capelli. L’edificio è malan­dato. Gli impianti sono in uno sta­to pietoso. I problemi, tuttavia, non riguardano soltanto le struttu­re fisiche. Gli studenti, infatti, con­tinuano a diminuire, a dispetto di un numero di professori non irrile­vante.
Dieci anni fa gli iscritti era­no oltre 1.700: oggi sono 500 di me­no. Il calo sfiora il 30%. In compen­so, i docenti sono 117. Ovvero, uno ogni dieci studenti. L’elenco degli insegnamenti colpisce per la stravaganza di alcuni titoli. Come «Teoria della percezione e psicolo­gia della forma». Oppure «Elemen­ti di morfologia e dinamica della forma». O ancora «Fondamenti di informatica delle arti visive e plasti­che ». Per non parlare dei contrasti, incessanti, fra i professori. Ce ne sarebbe abbastanza per ri­voltare l’Accademia come un calzi­no. E magari affrontare una volta per tutte, con una riforma decente, il problema che è alla base di situa­zioni simili. Perché da dieci anni gli enti (un’ottantina) come le acca­demie e i conservatori musicali fan­no capo a un settore del ministero dell’Istruzione che si chiama Alta formazione artistica e musicale, in gergo Afam, e sono sottoposti a un meccanismo gestionale insensato. Sono cioè in mano a due strutture parallele e di fatto totalmente indi­pendenti l’una dall’altra. C’è un consiglio di amministrazione, con relativo presidente. C’è poi un di­rettore didattico, eletto dai docenti con il consiglio accademico, che ha in mano la macchina dell’insegna­mento e sul quale il consiglio di amministrazione non ha alcun po­tere.
Uno strabismo folle, conseguen­za di una legge approvata durante gli ultimi mesi del governo di Mas­simo D’Alema, alla fine del 1999: la quale, per giunta non è mai stata regolamentata fino in fondo con ri­percussioni assurde non soltanto sulla gestione pratica degli enti. Quella legge, per esempio, ha equi­parato le accademie e i conservato­ri alle università, ma siccome non ci sono i regolamenti sulle corri­spondenze dei titoli accademici, chi esce da quegli istituti non può fare concorsi pubblici. A marzo di quest’anno Gaia Benzi, una studen­tessa romana, ha consegnato que­sta amara diagnosi alla rivista Mi­cromega: «È così che, da ormai die­ci anni, le Accademie riformate so­pravvivono immerse in un desolan­te deserto normativo, vittime e a volte complici della più totale anar­chia legislativa. Leggi inesistenti, fondi miseri, ambiguità nella ge­stione. Cos’altro manca? L’arte è inutile, inefficiente, qualche volta pericolosa: meglio abolirla». Ma i tempi di reazione del mini­stero presidiato da oltre un anno da Mariastella Gelmini alle solleci­tazioni che arrivano dai vertici del­l’Accademia non sono fulminei, e i mesi passano inutilmente. La pro­posta, avanzata da Romiti, di met­tere la faccenda nelle mani di una commissione di esperti per riscri­vere le regole della governance, fi­nisce su un binario morto. E identi­co esito ha l’idea del commissaria­mento.
Nel frattempo la situazione si fa sempre più complicata, come dimostra la circostanza che l’ulti­mo anno accademico sia iniziato di fatto addirittura nello scorso mese di marzo, con un ritardo senza pre­cedenti. Finché qualche mese fa si pre­senta a piazza del Ferro di cavallo un ispettore del ministero che si mette a spulciare tutte le carte del­l’Accademia. Le sue conclusioni sa­rebbero le stesse alle quali era arri­vato il presidente: la governance dell’istituto non può funzionare e va radicalmente modificata. Nel rapporto, tuttora top secret, non si risparmierebbero poi le criti­che alla direzione didattica. Ragion per cui l’ispettore avrebbe richie­sto il commissariamento immedia­to della stessa direzione, ora affida­ta a Gerardo Lo Russo, e del consi­glio accademico. Sottolineando l’esistenza di inefficienze e profon­di contrasti nel corpo docente in un momento particolarmente deli­cato, proprio quando le strutture della scuola dovrebbero essere tut­te coralmente impegnate nella pre­parazione di una Mostra storica dell’attività degli ultimi cin­quant’anni, a cui viene attribuita una certa importanza. Non mancherebbe neppure qual­che riferimento indiretto a episodi che avrebbero contribuito ad ac­centuare quei contrasti.
Come la tormentata vicenda della nomina, poi della sostituzione, e quindi del­la successiva rinomina, della vice direttrice che affianca Lo Russo: Claudia Alliata di Villafranca, do­cente della stessa Accademia e inci­dentalmente consorte del magistra­to del Tar Carlo Modica de Mohac, capo di gabinetto del ministro del Turismo Michela Vittoria Brambil­la. Ma neanche il risultato di questa indagine pare aver smosso finora le acque stagnanti del ministero dell’Istruzione. Il rapporto del­­l’ispettore giace da due mesi sulla scrivania del direttore dell’Afam, Giorgio Bruno Civiello, oltre che su quelle del potente capo del di­partimento del dicastero, Antonel­lo Masia, e del ministro Gelmini. In attesa chissà di quali altri svilup­pi. Forse un miracolo.
Sergio Rizzo
24 giugno 2009 (ultima modifica: 25 giugno 2009)

LETTERE AL DIRETTORE (CORRIERE) – MAI PUBBLICATA

Da: Daniele Paolin [mailto:paolindaniele]
Inviato: mercoledì 24 giugno 2009 19.16
A: sromano@rcs.it; lettere.corriere@corriere.it
Oggetto: Accademie di Belle Arti

Gentile Romano,
scrivo in merito all’articolo apparso oggi (24/06) sul Corriere a firma Sergio Rizzo dal titolo “Le pessime abitudini delle Belle Arti”. Cercherò di essere breve; mi creda, è molto facile scrivere male sulle Accademie: tutti coloro che dall’esterno hanno avuto l’avventura di entrare in qualcuna di esse, hanno trovato situazioni disastrose, penose, raccapriccianti, sia a livello logistico che a livello amministrativo. Il vostro giornale non è la prima volta che si occupa dell’argomento (vedi Accademia di Milano Brera e i suoi “scandali”). Mai però una sola volta ci si sia chiesti, al di là delle responsabilità personali oggettive di qualche dirigente inetto, come e perché si sia arrivati a questo punto. Mai una volta è apparso un articolo serio sulle lotte che da decenni (quasi mezzo secolo!) stanno facendo docenti e studenti che “fingono” di fare l’Università (pagando e studiando, gli studenti, nello stesso modo) senza esserlo, per un riconoscimento definitivo del ruolo che questi istituti storici hanno (vedi art. 33 della Costituzione), per un titolo di studio che soltanto in Italia è il massimo titolo in questo campo del sapere e della cultura, ma non è, e probabilmente non sarà mai, “laurea” (e ci si stupisce del calo degli studenti…!!!). Il nostro destino è sempre stato quello di sopportare “riformine” a costo zero con tutti i ministri che si sono succeduti; ed è solo da qualche hanno che facciamo parte del MIUR: prima eravamo sotto il ministero dell’Istruzione, come le medie e le superiori di cui ancora noi docenti conserviamo lo stipendio. Il nostro ordinamento, con qualche ritocco, è ancora ottocentesco, in un mondo che ormai non riconosce più il confine fra pittura, scultura, decorazione, ma è pieno di “istallazioni”, “performances”, video-arte, fotografia, scenografia digitale ecc.: secondo Lei “dove” si impara a “manipolare” questi nuovi strumenti e questi nuovi linguaggi, oltre a quelli “classici”? Quale altra istituzione è oggi in grado di garantire una seria preparazione nel campo del “fare” arte? Forse le facoltà universitarie, che di materie dai “titoli stravaganti” sono zeppe e che per “catturare clienti” si inventano (sul serio) titoli astrusi di materie dal contenuto artistico?
Come può un’Accademia come quella di Brera a Milano avere quasi 3000 studenti a fronte di 4 applicati di segreteria (come non è in effetti, ma come il limitatissimo ordinamento economico e normativo – non universitario – prevederebbe)? Quale politico si è mai mosso per queste istituzioni o ha fatto qualcosa per il loro destino o per una VERA riforma? Proprio in una Italia che dell’Arte è la riconosciuta culla? La presidenza del C. D. A. delle Accademie è quasi sempre un ultimo riconoscimento a figure, esclusivamente di matrice partitica, sulla via del “tramonto”, a personaggi che né di arte né di formazione artistica e dei suoi problemi si sono mai interessati (forse qualcuno neppure di quelli amministrativi…). Ma il problema è proprio questo: siamo in pochi (studenti e docenti) e “politicamente” e “scientificamente” non abbiamo nessun peso, soprattutto in questa economia e quindi il nostro “valore” di mercato è minimo; anzi, siamo un peso. Quindi: chiudiamo per sempre le Accademie, anche perché, a parte il lussuoso mercato fatto dai grandi nomi e dalle grandi speculazioni, l’arte, in sé, non interessa più a nessuno, tranne qualche pazzo o qualche estroso critico…che magari ha studiato “Teoria della percezione…” (chi non sa cosa sia, può andare a vedere, anche su Wikipedia, cos’ha scritto e chi era un certo Rudolf Arnheim…).

Daniele Paolin – Docente di “Tecniche di rappresentazione dello spazio” (stravagante…!) Accademia di Brera – Milano

GENIO & CREATIVITA’

Filed under: Scritti — Daniele @ 9:54 am

Di Francesco Bottaccioli – Scuola di medicina integrata

La favola vuole che Newton scopra la gravità improvvisamente, dopo la caduta di una mela sulla testa e che Darwin scopra l’evoluzione delle specie dopo aver osservato alcuni uccelli alle isole Galapagos durante una giovanile e avventurosa navigazione intorno al mondo. L’innovazione quindi, anche la grande innovazione, quella che segna il passaggio delle epoche della storia umana, sarebbe frutto del caso o di un’illuminazione improvvisa che accade a persone singolari. L’immagine è quella della lampadina che s’illumina nella testa del genio, il quale ne è quasi travolto, come se fosse il recipiente di un’azione altrui.
Chi ha visto il film “A beautiful mind”, che narra la storia del premio Nobel per la matematica John Nash, affetto da una seria forma di psicosi, può essersi rafforzato in questa convinzione. Il povero John era tramortito da questo effluvio di formule e di idee matematiche che si impadronivano di lui. Idee che seguivano, a detta sua, le stesse strade che seguivano gli extraterrestri per comunicare con lui, anche se Nash, ovviamente, ha preso il Nobel non per la sua capacità di comunicare con i marziani, ma per le sue innovative idee matematiche.
La ricerca scientifica più recente sulla creatività umana ridimensiona molto questa immagine, anche se, per altri versi, riconferma il legame tra creatività e divergenza, in un contesto meno individualistico, che però non espelle la pazzia, considerandola il prodotto indesiderato di un salto evolutivo del cervello umano.
R. Keith Sawyer, psicologo della Washington University, che ha appena pubblicato un libro sull’argomento “Explaining creativity: the science of human innovation”, Oxford 2006 (Spiegare la creatività: la scienza dell’innovazione umana), insiste nella “normalizzazione” o meglio nella naturalizzazione della creatività. «Non è la magica esplosione di un’idea», dice in un’intervista a Time, «né un flash abbagliante, ma una catena di reazioni che connette molte piccole scintille sparse».
Qui troviamo un primo elemento forte, assodato dalla ricerca neurobiologica: creatività come capacità di connettere idee, piani di ragionamento e quindi anche circuiti cerebrali diversi tra loro.
Una delle prime definizioni moderne di creatività è stata avanzata nel 1890 dal grande William James che nei suoi “Principi di psicologia” la descrive, per l’appunto, come «una transizione da un’idea a un’altra, una inedita combinazione di elementi, una acuta capacità associativa e analogica». In sostanza, un sovvertimento del solito “tran tran” mentale, un uscire fuori dalle regole del pensiero “normale”, un connettere ciò che di solito è separato, una produzione di nuovi punti di vista per associazione analogica. James battezzò tutto ciò “pensiero divergente”.
Ma come si realizza il pensiero divergente? Che strade psichiche e nervose segue? È possibile coltivare la creatività? E infine: che relazione c’è tra genio e pazzia? Il creativo è quindi un disadattato oppure la creatività è una risorsa adattativa? Domande a cui la scienza comincia a dare qualche risposta.

* * *

NANCY C. ANDREASEN, una delle più brillanti neuroscienziate americane contemporanee, all’età di cinque anni, venne definita un genio in virtù del suo elevato quoziente intellettivo (QI). La stessa scienziata ci spiega adesso, in un suo libro dedicato proprio alla genialità (The creating brain: the neuroscience of genius, New York, dicembre 2005), che per essere creativi non necessariamente bisogna essere intelligentissimi. O, meglio, l’intelligenza è assolutamente necessaria, ma non è sufficiente. Ci sono persone con elevato Ql che sono scarsamente creative. E questo perché si può decidere di investire la propria intelligenza in un campo sicuro, che non richiede, anzi aborrisce il pensiero divergente. I famosi primi della classe sono secchioni non tanto perché poco intelligenti e molto studiosi, ma perché aderenti alle regole e al pensiero conformista che, del resto, la scuola, contravvenendo alla sua missione, alimenta e richiede. La creatività quindi è legata, dice Andreasen, al rischio, alla capacità di mettersi in gioco. E non sempre va tutto liscio. Senza scomodare i processi, le persecuzioni reazionarie nel corso dei secoli, illuminante al riguardo è la ricerca che la scienziata americana ha fatto sul rapporto tra professioni creativi e psicopatologia. Sembrerebbe che più dell’80% degli scrittori professionisti siano, in un modo o nell’altro, affetti da disturbi dell’umore, con i poeti in cima alla lista, sofferenti in particolare di disturbo maniaco depressivo (cosiddetto bipolare). Non mancano i casi celebri. Notissimi I problemi psichici seri di Vincent va Gogh e di Friedrich Nietzsche, meno noto il fatto che Newton soffrì di episodi psicotici, che uno dei grandi logici del Novecento Bertrand Russell avesse uno zio e un figlio schizofrenici, che Albert Einstein avesse un figlio schizofrenico e che l’icona della letteratura James Joyce avesse una sorella morta in manicomio. Andreasen respinge ‘Idea che ci possa essere un gene della schizofrenia, che invece è un disordine poligenico che si configura come un disturbo delle connessioni dei circuiti cerebrali. I suoi studi e quelli di altri mettono in luce che alcuni deficit specifici non ostacolano il genio creativo, anzi possono sollecitarlo per un meccanismo d’adattamento. Pablo Picasso andava male a scuola perché aveva un disturbo del linguaggio, Albert Einstein fino a tre anni non parlava. Ambedue, in forme diverse, come per compensazione, hanno notevolmente sviluppato i circuiti immaginativi visivi. Il pittore ha poi tradotto la sua creatività in Guernica, che è il suo discorso contro la guerra, il fisico nella celebre formula di equivalenza della massa e dell’energia, che è il suo discorso sul mondo. Einstein soleva dire che pensava per immagini, ma è noto che si esprimesse con formule. Picasso aveva studiato in modo approfondito l’arte figurativa prima di esprimersi con le sue fantastiche figure e Einstein la matematica prima di esprimersi con la sua teoria della relatività. La loro creatività, come possibile adattamento a un deficit iniziale, aveva quindi potuto esprimersi sulla base di forti competenze specifiche sviluppato in un lungo tirocinio. Senza competenze non c’è creatività, ma le competenze da sole non bastano. Occorre metterle in gioco, rischiando.

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SECONDO uno dei massimi studiosi della creatività, Mark A. Runco della California University, autore di una recente ampia rassegna su “Annua! Reviews of Psychology”, la creatività non va vista solo come innovazione artistica, scientifica, tecnologica, ma come una qualità umana fondamentale per la vita di tutti giorni. E in effetti c’è bisogno di molta creatività a sopravvivere con un lavoro precario a 300 euro al mese, oppure ad allevare figli lavorando in un contesto che penalizza le assenze per malattia dei bambini. In questo senso, (I principale ingrediente della creatività, scrive Runco, è la flessibilità, è la capacità di escogitare soluzioni, di vedere la stessa cosa da un altro, più favorevole, punto di vista, di confrontarsi con i cambiamenti della vita di tutti giorni. Ma la grande creatività, quella artistica e scientifica, si basa sulla flessibilità. Flessibilità, nella scienza, vuoi dire praticare un pensiero non autarchico, ma che cerca contaminazioni.
I grandi avanzamenti scientifici sono di solito il risultato della contaminazione tra scienze, per statuto e pratica, separate. Non sarebbe nata la genetica se un abate, fisico, Gregory Mende), non fosse stato anche un botanico. Non si sarebbe compresa l’evoluzione della vita sulla Terra se un giovane naturalista autodidatta, Charles Darwin, non avesse combinato l’osservazione della flora e della fauna del nuovo mondo con lo studio della geologia e del pensiero politico popolazionale di Malthus, integrando il tutto con l’esperienza degli allevatori di cani di razza. E probabilmente non sarebbe nata la fisica moderna se il quarantenne Isaac Newton non si fosse ritirato a studiare alchimia. Il padre della meccanica razionale, l’uomo che ha aperto l’era della grande scienza moderna, tra il 1670 e il 1695, si dedicò a intensi studi ed esperimenti alchemici, la scienza magica per eccellenza. In questo contesto, maturò la scrittura dei “Principia mathematica”, opera che impresse una svolta irreversibile alla scienza. Per questo, la storica americana Betty Dobbs, alcuni anni fa, definì Newton un “Giano bifronte”: fisico e alchimista. E, forse, proprio per questo, creativo.

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IL 18 APRILE di 51 anni fa moriva Albert Einstein. Per volontà testamentaria, il suo cervello venne salvato dalla cremazione e asportato da Thomas Harvey, patologo del Princeton Hospital, New Jersey. Venne fotografato, sezionato e analizzato in tutti i dettagli. Analisi che ancor oggi è fonte di dibattito in quanto si spera di comprendere alcune caratteristiche strutturali di uno dei cervelli più creativi mai conosciuti. Come abbiamo già detto, il piccolo Albert ha parlato tardi, dando una comprensibile preoccupazione ai suoi genitori. Dall’esame del suo cervello, effettivamente sembra che ci siano delle particolarità. Tra le altre, un notevole maggior sviluppo di un’area posteriore dell’emisfero sinistro, l’area 39 (parietale inferiore) e 37 (temporale posteriore). Queste aree fanno parte della cosiddetta area di Wernicke che integra attività come la comprensione delle parole, dei toni, ma anche le abilità spaziali e matematiche. Al notevole sviluppo di questa parte del cervello di Einstein non corrisponde un analogo sviluppo della cosiddetta area di Broca che è quella che consente l’esecuzione del linguaggio. «Quindi, il piccolo Albert ha avuto probabilmente qualche problema di sviluppo dell’emisfero sinistro», scrivono Kenneth H. Heilmann e Stephen E. Nadeau dell’Università della Florida in articolo dedicato ai meccanismi nervosi della creatività, «notevolmente compensati dallo sviluppo dell’area posteriore e, soprattutto dalla crescita delle possibilità di integrazione di circuiti nervosi che si riferiscono a diverse abilità: ricettive, spaziali, matematiche e quindi immaginative». Del resto, l’influenza della capacità visiva e immaginativa sulla elaborazione matematica è confermata dalle affermazioni di Richard Feynman, premio Nobel per la Fisica, che dice di iniziare a pensare in termini di astratta rappresentazione visiva che poi traduce in termini matematici. Studi su persone normali, sottoposte a compiti creativi, mostrano all’elettroencefalogramma un incremento della coerenza delle oscillazioni elettriche tra aree nervose molto lontane tra loro a dimostrazione che la forte integrazione di circuiti diversi è la base biologica che sostiene il tipico comportamento creativo: l’allargamento degli orizzonti, il reclutamento di idee non immediatamente collegate, la rottura degli schemi. Infine, per consentire la produzione del pensiero divergente è necessario che il sistema che produce noradrenalina sia molto mobile.

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È CAPITATO a tutti di trovare la soluzione a un problema dopo una bella dormita, in una fase di rilassamento, oppure dopo alcune ore o giorni, quando non ci si pensa più. Alcuni risolvono questioni, anche non piccole, in sogno, come si racconta sia successo a August Kekulé, eminente chimico tedesco, che nel 1865 mentre ragionava, senza risultati, sulla struttura del benzene, si addormentò e sognò un serpente che si mordeva la coda. Svegliatosi, immaginò che la struttura del benzene fosse ad anello e così ancora la concepiamo! Sapersi concentrare e quindi attivarsi su un problema è assolutamente necessario se si vuol provare a risolverlo, ma un eccesso di attivazione e quindi di stress può essere controproducente. Ricerche recentissime di Gary Aston-Jones, neuropsichiatra dell’Università della Pennsylvania, sul sistema che governa l’attivazione cerebrale, basato sui neuroni che producono noradrenalina, collocati in un’area del tronco dell’encefalo chiamata Locus coeruleus, dimostrano che il meccanismo della creatività comporta una continua bilancia tra attività fasica e attività tonica. Nella fasica si ha un picco nella produzione di noradrenalina che consente al cervello di selezionare il compito da affrontare e di concentrarsi con determinazione. Nella tonica, il livello di noradrenalina si abbassa e ciò consente una notevole capacità di reclutamento di idee e una maggiore capacità esplorativa del nuovo. Si tratta in sostanza di sapersi concentrare senza agitarsi e, al tempo stesso, di distogliere l’attenzione dal tema, rilassandosi in profondità, senza perdere la capacità di tornare al tema, ma possibilmente con in testa nuovi elementi sollecitati ad emergere proprio dalla fase di rilassamento. Le persone che usano regolarmente tecniche antistress e meditative, che sono basate proprio su questa capacità di concentrazione e rilassamento, acquisiscono un habitus mentale che consente loro una maggiore produttività intellettuale e, possibilmente, una maggiore creatività.

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IL SOGNO e l’usignolo sono i due “modelli” da cui si spera di avere la soluzione del mistero della creatività. L’usignolo, col suo canto sempre diverso, è un ottimo modello perché ha un cervello molto più piccolo di quello umano. Più semplice quindi, scovare tra le strutture nervose, quella da cui sgorga la melodia sempre diversa e ricostruirne poi la struttura e il funzionamento.
Ma anche dalle ricerche sui sogni possono uscire scoperte. Durante questa fase nervosa, il cervello umano riduce in modo drastico la sua attività, “spegnendo” numerose strutture e riducendo di molto quindi le aeree dove indagare. In particolare, durante il sonno, si staccano sia le connessioni con le vie che portano le sensazioni e le strutture centrali che le elaborano e sia le connessioni con le strutture che elaborano e comandano le reazioni motorie. Si attiva, invece, solo quella parte di cervello che produce relazioni nuove tra le informazioni depositate. Che è l’essenza della creatività. Nonostante questi due modelli semplifichino molto il lavoro di ricerca, la creatività rimane ancora un mistero.

Umberto Galimberti: l’oggettivazione della soggettività

Filed under: Scritti — Daniele @ 9:50 am

“Alla base della demotivazione scolastica esiste quella tendenza all’oggettivazione che porta i medici a considerare i pazienti solo come organismi, che porta nel mondo del lavoro a considerare gli uomini in base al solo criterio dell’efficienza, risolvendo la loro identità nell’efficacia della loro prestazione, che porta i professori a giudicare i loro studenti in base al profitto, termine che il mondo della scuola ha mutuato dal mondo economico, risolvendo l’educazione in un puro fatto quantitativo dove a sommarsi sono nozioni e voti.
Siccome la quantità è misurabile con il calcolo, dalla scuola vengono espulse tutte quelle dimensioni che sfuggono alla calcolabilità, quindi: creatività, emozioni, identificazioni, proiezioni, desideri, piaceri, dolori che costellano la crescita giovanile e di cui la scuola non tiene il minimo conto. Ciò spiega perché a scuola vanno bene e prendono bei voti quei ragazzi che hanno un basso livello di creatività, scarsi impianti emozionali, limitate proiezioni fantastiche. Libera da questi inconvenienti, la mente può disporsi più agevolmente a immagazzinare tutte quelle nozioni che si ordinano con rigore e precisione; più sono disanimate, meno coinvolgono l’anima, all’insegna di quel risparmio emotivo che rende l’incasellamento delle informazioni molto più agevole.
Espulsa dalla scuola l’educazione emotiva, l’emozione vaga senza contenuti a cui applicarsi, ciondolando pericolosamente tra istinti di rivolta, che sempre accompagnano ciò che non può esprimersi, e tentazioni d’abbandono in quelle derive di cui il mondo della discoteca, dell’alcol e della droga sono solo esempi neppure troppo estremi”.

Scenografia contemporanea

Filed under: Scritti — Daniele @ 9:47 am

Cari lettori, ho il compito di dover presentare questa nuova iniziativa editoriale, spiegandone le ragioni e le finalità. Contemporary Scenography nasce in un momento particolare della nostra epoca assolutamente sorprendente, per capacità di mutazione e carica inventiva. Il progresso tecnologico ed il percorso dell’arte hanno spesso disegnato i confini e le configurazioni del sapere con reciproche contaminazioni. Ma è lecito chiedersi se siamo effettivamente pronti a nuove sfide, e non ci sia piuttosto una sorta di “vuoto formativo”, o meglio: i nostri ordinari percorsi sembrano ancora fortemente frazionati, spesso non comunicanti e comunque non in grado di corrispondere alla richiesta di una complessa progettualità. Mentre da una parte assistiamo ad un’inevitabile proliferare di documenti di natura scientifica, destinati ad una cerchia ristretta di utenti, dall’altra sponda è scomparsa del tutto la letteratura scenografica. E’ bastato annullare dalle agende il dibattito sulla grande scenografia, quella che aveva visto negli anni 50, agli albori del neorealismo italiano, i grandi registi e i grandi architetti scenografi confutare e confermare tesi spesso azzardate, ma sempre e comunque futuriste e futuribili e quindi cariche di attenzione per l’avvenire delle nuove generazioni. Questo lento depauperamento della cultura scenografica è iniziato alla fine degli anni ’60 ed è figlio di quella “… cultura universitaria dove molti di noi si sono formati mezzo secolo fa, una cultura non preoccupata più di trasmettere un’immagine unitaria del mondo, ma di fornire degli stereotipi di alcune realtà parziali, spezzettate, nell’intento di formare un numero sempre più cospicuo di specialisti che potessero contribuire con la loro opera allo sviluppo della nostra società. Si è creata così a poco a poco un tipo di civiltà sui generis: la civiltà degli specialisti … (Roberto Rossellini). Oggi lo specialista ha il compito di fornire un bagaglio incalcolabile di conoscenze, ma solo in una direzione. Ma lo scenografo è qualcosa di più se non qualcosa di diverso da un bravo tecnico. Egli è come lo definì Josef Svobota: un regista al 50% così come il regista è uno scenografo al 50%. Per essere scenografi occorre dunque avere innanzitutto una buona e vasta cultura generale, base che spesso manca agli specialisti. La scenografia, come ben sappiamo, richiede una conoscenza vastissima che si traduce poi in “curiosità”, poiché lo scenografo dovrà impegnarsi a ricostruire gli ambienti più disparati e di diversa natura. A queste informazioni si dovranno sommare poi componenti specificamente creative, i processi che riguardano la storia, la cultura, la drammaturgia, la psicologia, il tempo, una particolare metodologia tecnica, il luogo ed il suo rapporto con lo spettatore ed altro ancora.
Ma oggi sembra giunto il tempo in cui scienza e arte dovranno tornare a convergere: “… Non è più possibile per uno studioso che adotta procedure informatiche, non avere nozioni basilari sull’uso e sulla qualità delle immagini e delle interfacce; allo stesso modo un artista non può ignorare aspetti formativi scientifico-matematici per addentrarsi negli affascinanti meandri degli strumenti interattivi. Abbiamo bisogno gli uni degli altri e soprattutto di un continuo, infinito aggiornamento attraverso il quale è impossibile ogni nuovo, imprevisto risultato o creazione”. La tradizionale messa in scena vede, dunque, spesso competenze e saperi diversi procedere, nello stesso spettacolo, quasi isolati, pur nella comune finalità, ognuno convinto di essere l’elemento indispensabile: così l’attore, così il regista, così lo scenografo, così il musicista, così il tecnico. Ma nelle nuove forme di spettacolo intermediale, ad esempio, questo non può succedere: è impensabile che il performer non collabori con l’ingegnere per arrivare ad un risultato ottimale e che quest’ultimo non si consulti con il regista e che questi non decida con lo scenografo la variazione e che il tecnico non capisca la natura di questa esigenza ecc …” (Daniele Paolin, The Scenographer Issue No.7 – Sett. 2008).
L’inter-attività sembra essere quindi un concetto guida soprattutto in campo formativo laddove corsi di specializzazione e centri di ricerca rappresentano l’anello mancante fra il mondo dello studio e quello della professione e della produzione.
Contemporary Scenography si prefigge dunque questa missione. La stiamo condividendo con le Università europee, con i professionisti e la condivideremo, mi auguro, con le aziende che invitiamo ad organizzare quella formazione professionale che richiede un campo di applicazione ormai senza confini. Ma innanzitutto la condivideremo con voi: studenti universitari, docenti, ricercatori, appassionati di un’arte così antica eppure così moderna. 

Benvenuti nell’era della creatività…

Filed under: Scritti — Daniele @ 9:38 am

…diceva un certo Earls poco tempo addietro . Mi ha sempre incuriosito la parola CREATIVITA’ ed ogni sua possibile definizione che facesse un po’ di chiarezza su un termine alquanto vago ed approssimativo. Argomenti correlati? FANTASIA, INVENZIONE, IMMAGINAZIONE, ESTRO, BIZZARRIA ed ogni altro scontato, banale e comune accessorio legato soprattutto a processi artistici, termini quindi quasi diametralmente opposti, usualmente, a quelli quali PRATICA, DISCIPLINA, TECNICA, SCIENZA. Gli antichi greci usavano un unico termine, techne, per designare sia l’arte che l’artigianato. Avendo l’avventura di insegnare in una Istituzione di Alta Formazione Artistica, la ricerca della sua meno indistinta spiegazione sarebbe una risposta coerente e precisa a chi (tanti) abusa di questo termine, in primis i miei allievi. Quello di cui non vengo a capo è la capacità di molti studenti di avere delle “idee” straordinariamente diversificate ed affascinanti (a parole), ma assolutamente irrealizzabili e prive di ogni qualità di concretezza ed essenzialità pragmatica. Una sorta di onirismo acritico fine a se stesso (fantasia?). Credo fermamente che questo modo visionario di avere delle “idee” (il fatto di avere un’idea non è di per sé un “evento” straordinario, ognuno di noi ne ha…) stia contagiando un po’ tutta la nostra civiltà, proprio in virtù di una malinteso valore dato al termine CREATIVITA’ di cui troppo spesso ci si riempie la bocca. R. Keith Sawyer, psicologo della Washington University, che ha appena pubblicato un libro sull’argomento “Explaining creativity: the science of human innovation”, Oxford 2006 (Spiegare la creatività: la scienza dell’innovazione umana), insiste nella “normalizzazione” o meglio nella naturalizzazione della creatività. «Non è la magica esplosione di un’idea», dice in un’intervista a Time, «né un flash abbagliante, ma una catena di reazioni che connette molte piccole scintille sparse». Qui troviamo un primo elemento forte, assodato dalla ricerca neurobiologica: creatività come capacità di connettere idee, piani di ragionamento e quindi anche circuiti cerebrali diversi tra loro: in altre parole una forma di ELASTICA INTELLIGENZA.
In un post citai Munari ed il suo libro “Fantasia”. Sarò più preciso. Munari sosteneva che “La fantasia è tutto ciò che prima non c’era anche se irrealizzabile. L’invenzione è tutto ciò che prima non c’era ma esclusivamente pratico e senza problemi estetici. La creatività è tutto ciò che prima non c’era ma realizzabile in modo essenziale e globale. La fantasia, l’invenzione, la creatività pensano, l’immaginazione vede”. Sempre Munari si chiede già nel 1970:
“Come mai la nostra epoca dà simili opere d’arte?
Una scatola trasparente piena di dentiere usate.
Un manichino da vetrina verniciato di bianco.
Una macchina che disegna scarabocchi.
Un quadro fatto rovesciando il colore a caso.
Un tubetto di dentifricio grande dodici metri.
Un particolare di un fumetto ingrandito…
Non sarà per caso lo specchio della nostra società?
dove gli incompetenti stanno al posto di comando, dove l’imbroglio è normale, dove i rapporti umani sono falsi e dove la corruzione è regola.”
Il processo creativo quindi potrebbe essere questo (di anonimo, pieno di poesia e trovato per caso…):
…lo studio porta all’intuizione
l’intuizione si materializza proporzionandosi
le proporzioni si fanno progetto
il progetto si anima col colore
il colore diventa forma e materia
la forma si fa vita con la luce…
Per quello che può contare, sono d’accordo con costoro.

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