Fino a poco tempo fa, l’insegnamento della scenografia e della scenotecnica era esclusivamente svolto nelle accademie di belle arti. Da qualche tempo non è più soltanto prerogativa di questo ciclo di studi, ma, con l’autonomia finanziaria ed amministrativa degli atenei, molte facoltà e molti dipartimenti hanno attivato (alcuni a scopo esclusivamente pubblicitario di aumento di offerta formativa) corsi sul teatro e sulla scenografia.
Qualche ateneo ha anche attivato, praticamente sottraendoli all’esclusività delle stesse accademie, dei corsi di “produzione dell’arte” e di “scienze del teatro”, approfittando tempestivamente (e forse anche un po’ subdolamente) dell’incancrenita ed annosa situazione che vedeva queste ultime prive di riconoscimento del livello universitario (unico caso in tutta Europa) e quindi dei mezzi normativi e finanziari per essere, con un termine che non amo, “competitive”.
Ora sembra che anche questo problema, lentamente, si stia risolvendo; ma non soltanto sul piano legislativo: sembra che con la costituzione dell’AFAM, e cioè dell’Alta Formazione Artistica e Musicale, il prestigio di queste istituzioni (Accademie e Conservatori) finalmente sia stato riconosciuto da tutto il mondo accademico (cosa mai successa in passato…). Una domanda (retorica naturalmente): ciò doveva accadere soltanto nell’anno di grazia 2003?
Sono indispensabili, a questo punto, una serie di considerazioni per poi valutare se e in che modo hanno delle attinenze.
Partiamo da un semplicissimo dato di fatto: quasi mezzo secolo fa ad un ragazzino (parlo anche dal punto di vista personale) che manifestava, dopo la scuola dell’obbligo, l’idea di frequentare una scuola artistica, veniva quasi deriso e comunque fortemente dissuaso proponendogli come contropartita gli “studi scientifici” come modello di formazione di future, importanti occupazioni e di prestigiose posizioni sociali. L’arma deterrente era la consueta frase:”Ma che farai dopo? L’artista?” con una sorta di intonazione fra l’incredulo e lo sprezzante. La supposta “scientificità” che ha contraddistinto il nostro secolo aveva quindi già monopolizzato l’immaginario culturale sociale a tal punto da diventare quasi il simbolo di due mondi opposti. Questo stereotipo sembrava dovesse crollare almeno sotto i colpi di una serie di studi “scientifici” sulla percezione e sull’immagine e sul loro ruolo nel campo educativo e didattico.
Significative sembrano essere a questo proposito le parole di uno dei più grandi studiosi mondiali in questo campo, Rudolf Arnheim, che negli anni sessanta, nel suo Visual thinking ( Il pensiero visivo – La percezione visiva come attività conoscitiva) scriveva:”L’arte risulta negletta perché si fonda sulla percezione, e la percezione è oggetto di disdegno perché non si ritiene coinvolga il pensiero (…) Negligere l’arte non è che il simbolo più tangibile del diffusissimo stato di disoccupazione dei sensi in ogni settore dello studio accademico (…) Vi è una tendenza a trattare l’arte come una zona indipendente di studio, ed a presumere che l’intuizione e l’intelletto, il sentimento ed il ragionamento, l’arte e la scienza, coesistano ma non collaborino (…) Non vi è dubbio che nel giardino dell’infanzia i bambini più piccoli imparino vedendo e maneggiando forme piacevoli, e inventino le proprie stesse configurazioni sulla carta o nella creta, pensando attraverso il percepire. Ma, con la prima classe della scuola elementare, i sensi cominciano a perdere ogni prestigio educativo. Sempre più, l’arte è considerata un tirocinio in attività gradevoli, un divertimento, un rilassamento mentale. E man mano che le discipline dominanti sottolineano con maggiore rigore lo studio delle parole e dei numeri, la loro parentela con l’arte si va oscurando, e le arti si riducono a un di più, per quanto desiderabile; sempre minore è il numero delle ore settimanali che è possibile sottrarre allo studio di quegli argomenti che invece, secondo l’opinione di tutti, hanno importanza vera. E al momento in cui la competizione per la conquista del diritto a frequentare l’università si fa acuta, rare sono le scuole superiori che insistono nel riservare alle arti il tempo occorrente a conferire una qualche utilità alla pratica di esse. Ancor più rare sono le istituzioni presso le quali un impegno nel campo artistico viene giustificato consapevolmente, in base alla presa di coscienza del fatto che esse contribuiscono in misura indispensabile allo sviluppo di un essere umano ragionante ed immaginante. Quest’offuscamento educativo persiste all’università, ove lo studente d’arte è considerato un individuo che persegue abilità distinte ed intellettualmente inferiori, sebbene qualunque persona “superiore” in una delle aree accademiche di maggiore reputazione venga incoraggiata a trovare una “ricreazione salutare” nello studio artistico, durante alcune tra le sue ore libere. Le arti nelle quali si preparano e in cui si diplomano l’allievo ed il maestro non comprendono ancora l’esercizio creativo degli occhi e delle mani come componente riconosciuto di un’educazione superiore (…) In quali modi ci si può aspettare che le arti favoriscano altri settori dello studio? E, per converso, come può il lavoro svolto in settori non artistici contribuire ad arricchire lo studio delle arti? Cominciamo a trovare una risposta quando ci ricordiamo che non c’è quasi insegnamento e apprendimento in qualsiasi settore di studi, senza l’uso pratico delle immagini (…) Una buona illustrazione anatomica è un insegnante. Essa mostra non soltanto il groviglio di muscoli e di ossa che potrebbe colpire l’occhio del percettore inesperto, ma chiarisce anche le interazioni funzionali tra le varie componenti che fanno agire il corpo (cosa che nessuna foto è in grado di fare…n.d.r.) (…) I grafici che illustrano relazioni logiche o sociali, correlazioni scientifiche o organizzazioni commerciali traducono reticoli astratti in pattern percettivi direttamente visibili e pertanto più facilmente comprensibili. Una conseguenza di questo intimo nesso tra visione ed astrazione è che la pratica dell’arte può essere direttamente utile a chi affronta problemi di composizione in aree del tutto diverse.”
Sembra quindi che Arnheim auspichi una più diretta collaborazione, quasi una simbiosi tra i percorsi formativi scientifici e quelli artistici.
In altre culture ed in altre società, queste parole e tutta l’organizzazione della ricerca e degli studi cui sottendono, avrebbero sviluppato, seppure lentamente, un nuovo modo di concepire la formazione, l’insegnamento, lo studio. Ma non hanno smosso assolutamente nulla. Né nella cosiddetta opinione pubblica, né tanto meno nell’organizzazione degli studi sia a livello ministeriale (e a questo purtroppo siamo tristemente abituati) sia a livello di organizzazione della didattica e dei saperi…Anzi! La sempre più diffusa tendenza a prendere in considerazione quasi esclusivamente l’applicazione utilitaristica, funzionale, commerciale e pratica degli studi, ha ancora di più relegato gli studi artistici, oltre alla ricerca pura, a ruoli definitivamente accessori ed opzionali.
Dopo quasi mezzo secolo, ancora oggi chiedo ai miei studenti d’Accademia, se sia stata una scelta facile, quella artistica. Nella quasi totalità dei casi non è cambiato assolutamente niente: ancora le stesse retoriche domande e le stesse perplessità di sempre…
L’arte ha ancora, anche ai giorni nostri, quest’aura di ermetica, incomprensibile “magia” e gli artisti altro non sono che contemporanei stregoni che ne possiedono le chiavi ma che custodiscono in qualche modo la sua impenetrabilità. E quindi la responsabilità del suo isolamento è anche un po’ loro…Ancora Arnheim: ”Forse all’arte si è impedito, nella nostra epoca, di adempiere alla sua più importante funzione: e ciò, con l’onorarla troppo. L’arte è stata elevata al di sopra del contesto della vita quotidiana, esiliata per glorificarla, imprigionata, in case-scrigno che ispirano timore.”