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18/01/2017

genio & creatività

Filed under: Scritti — Daniele @ 5:13 pm

Si comincia a capire come si genera un’idea nuova nella mente umana. Ora la sfida è scoprire in quali circuiti nervosi nasce.

GENIO & CREATIVITA’

Di Francesco Bottaccioli – Scuola di medicina integrata

La favola vuole che Newton scopra la gravità improvvisamente, dopo la caduta di una mela sulla testa e che Darwin scopra l’evoluzione delle specie dopo aver osservato alcuni uccelli alle isole Galapagos durante una giovanile e avventurosa navigazione intorno al mondo. L’innovazione quindi, anche la grande innovazione, quella che segna il passaggio delle epoche della storia umana, sarebbe frutto del caso o di un’illuminazione improvvisa che accade a persone singolari. L’immagine è quella della lampadina che s’illumina nella testa del genio, il quale ne è quasi travolto, come se fosse il recipiente di un’azione altrui.

Chi ha visto il film “A beautiful mind”, che narra la storia del premio Nobel per la matematica John Nash, affetto da una seria forma di psicosi, può essersi rafforzato in questa convinzione. Il povero John era tramortito da questo effluvio di formule e di idee matematiche che si impadronivano di lui. Idee che seguivano, a detta sua, le stesse strade che seguivano gli extraterrestri per comunicare con lui, anche se Nash, ovviamente, ha preso il Nobel non per la sua capacità di comunicare con i marziani, ma per le sue innovative idee matematiche.

La ricerca scientifica più recente sulla creatività umana ridimensiona molto questa immagine, anche se, per altri versi, riconferma il legame tra creatività e divergenza, in un contesto meno individualistico, che però non espelle la pazzia, considerandola il prodotto indesiderato di un salto evolutivo del cervello umano.

R. Keith Sawyer, psicologo della Washington University, che ha appena pubblicato un libro sull’argomento “Explaining creativity: the science of human innovation“, Oxford 2006 (Spiegare la creatività: la scienza dell’innovazione umana), insiste nella “normalizzazione” o meglio nella naturalizzazione della creatività. «Non è la magica esplosione di un’idea», dice in un’intervista a Time, «né un flash abbagliante, ma una catena di reazioni che connette molte piccole scintille sparse».

Qui troviamo un primo elemento forte, assodato dalla ricerca neurobiologica: creatività come capacità di connettere idee, piani di ragionamento e quindi anche circuiti cerebrali diversi tra loro.

Una delle prime definizioni moderne di creatività è stata avanzata nel 1890 dal grande William James che nei suoi “Principi di psicologia” la descrive, per l’appunto, come «una transizione da un’idea a un’altra, una inedita combinazione di elementi, una acuta capacità associativa e analogica». In sostanza, un sovvertimento del solito “tran tran” mentale, un uscire fuori dalle regole del pensiero “normale”, un connettere ciò che di solito è separato, una produzione di nuovi punti di vista per associazione analogica. James battezzò tutto ciò “pensiero divergente”.

Ma come si realizza il pensiero divergente? Che strade psichiche e nervose segue? È possibile coltivare la creatività? E infine: che relazione c’è tra genio e pazzia? Il creativo è quindi un disadattato oppure la creatività è una risorsa adattativa? Domande a cui la scienza comincia a dare qualche risposta.

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NANCY C. ANDREASEN, una delle più brillanti neuroscienziate americane contemporanee, all’età di cinque anni, venne definita un genio in virtù del suo elevato quoziente intellettivo (QI). La stessa scienziata ci spiega adesso, in un suo libro dedicato proprio alla genialità (The creating brain: the neuroscience of genius, New York, dicembre 2005), che per essere creativi non necessariamente bisogna essere intelligentissimi. O, meglio, l’intelligenza è assolutamente necessaria, ma non è sufficiente. Ci sono persone con elevato Ql che sono scarsamente creative. E questo perché si può decidere di investire la propria intelligenza in un campo sicuro, che non richiede, anzi aborrisce il pensiero divergente. I famosi primi della classe sono secchioni non tanto perché poco intelligenti e molto studiosi, ma perché aderenti alle regole e al pensiero conformista che, del resto, la scuola, contravvenendo alla sua missione, alimenta e richiede. La creatività quindi è legata, dice Andreasen, al rischio, alla capacità di mettersi in gioco. E non sempre va tutto liscio. Senza scomodare i processi, le persecuzioni reazionarie nel corso dei secoli, illuminante al riguardo è la ricerca che la scienziata americana ha fatto sul rapporto tra professioni creativi e psicopatologia. Sembrerebbe che più dell’80% degli scrittori professionisti siano, in un modo o nell’altro, affetti da disturbi dell’umore, con i poeti in cima alla lista, sofferenti in particolare di disturbo maniaco depressivo (cosiddetto bipolare). Non mancano i casi celebri. Notissimi I problemi psichici seri di Vincent va Gogh e di Friedrich Nietzsche, meno noto il fatto che Newton soffrì di episodi psicotici, che uno dei grandi logici del Novecento Bertrand Russell avesse uno zio e un figlio schizofrenici, che Albert Einstein avesse un figlio schizofrenico e che l’icona della letteratura James Joyce avesse una sorella morta in manicomio. Andreasen respinge ‘Idea che ci possa essere un gene della schizofrenia, che invece è un disordine poligenico che si configura come un disturbo delle connessioni dei circuiti cerebrali. I suoi studi e quelli di altri mettono in luce che alcuni deficit specifici non ostacolano il genio creativo, anzi possono sollecitarlo per un meccanismo d’adattamento. Pablo Picasso andava male a scuola perché aveva un disturbo del linguaggio, Albert Einstein fino a tre anni non parlava. Ambedue, in forme diverse, come per compensazione, hanno notevolmente sviluppato i circuiti immaginativi visivi. Il pittore ha poi tradotto la sua creatività in Guernica, che è il suo discorso contro la guerra, il fisico nella celebre formula di equivalenza della massa e dell’energia, che è il suo discorso sul mondo. Einstein soleva dire che pensava per immagini, ma è noto che si esprimesse con formule. Picasso aveva studiato in modo approfondito l’arte figurativa prima di esprimersi con le sue fantastiche figure e Einstein la matematica prima di esprimersi con la sua teoria della relatività. La loro creatività, come possibile adattamento a un deficit iniziale, aveva quindi potuto esprimersi sulla base di forti competenze specifiche sviluppato in un lungo tirocinio. Senza competenze non c’è creatività, ma le competenze da sole non bastano. Occorre metterle in gioco, rischiando.

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SECONDO uno dei massimi studiosi della creatività, Mark A. Runco della California University, autore di una recente ampia rassegna su “Annua! Reviews of Psychology”, la creatività non va vista solo come innovazione artistica, scientifica, tecnologica, ma come una qualità umana fondamentale per la vita di tutti giorni. E in effetti c’è bisogno di molta creatività a sopravvivere con un lavoro precario a 300 euro al mese, oppure ad allevare figli lavorando in un contesto che penalizza le assenze per malattia dei bambini. In questo senso, (I principale ingrediente della creatività, scrive Runco, è la flessibilità, è la capacità di escogitare soluzioni, di vedere la stessa cosa da un altro, più favorevole, punto di vista, di confrontarsi con i cambiamenti della vita di tutti giorni. Ma la grande creatività, quella artistica e scientifica, si basa sulla flessibilità. Flessibilità, nella scienza, vuoi dire praticare un pensiero non autarchico, ma che cerca contaminazioni.

I grandi avanzamenti scientifici sono di solito il risultato della contaminazione tra scienze, per statuto e pratica, separate. Non sarebbe nata la genetica se un abate, fisico, Gregory Mende), non fosse stato anche un botanico. Non si sarebbe compresa l’evoluzione della vita sulla Terra se un giovane naturalista autodidatta, Charles Darwin, non avesse combinato l’osservazione della flora e della fauna del nuovo mondo con lo studio della geologia e del pensiero politico popolazionale di Malthus, integrando il tutto con l’esperienza degli allevatori di cani di razza. E probabilmente non sarebbe nata la fisica moderna se il quarantenne Isaac Newton non si fosse ritirato a studiare alchimia. Il padre della meccanica razionale, l’uomo che ha aperto l’era della grande scienza moderna, tra il 1670 e il 1695, si dedicò a intensi studi ed esperimenti alchemici, la scienza magica per eccellenza. In questo contesto, maturò la scrittura dei “Principia mathematica”, opera che impresse una svolta irreversibile alla scienza. Per questo, la storica americana Betty Dobbs, alcuni anni fa, definì Newton un “Giano bifronte”: fisico e alchimista. E, forse, proprio per questo, creativo.

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IL 18 APRILE di 51 anni fa moriva Albert Einstein. Per volontà testamentaria, il suo cervello venne salvato dalla cremazione e asportato da Thomas Harvey, patologo del Princeton Hospital, New Jersey. Venne fotografato, sezionato e analizzato in tutti i dettagli. Analisi che ancor oggi è fonte di dibattito in quanto si spera di comprendere alcune caratteristiche strutturali di uno dei cervelli più creativi mai conosciuti. Come abbiamo già detto, il piccolo Albert ha parlato tardi, dando una comprensibile preoccupazione ai suoi genitori. Dall’esame del suo cervello, effettivamente sembra che ci siano delle particolarità. Tra le altre, un notevole maggior sviluppo di un’area posteriore dell’emisfero sinistro, l’area 39 (parietale inferiore) e 37 (temporale posteriore). Queste aree fanno parte della cosiddetta area di Wernicke che integra attività come la comprensione delle parole, dei toni, ma anche le abilità spaziali e matematiche. Al notevole sviluppo di questa parte del cervello di Einstein non corrisponde un analogo sviluppo della cosiddetta area di Broca che è quella che consente l’esecuzione del linguaggio. «Quindi, il piccolo Albert ha avuto probabilmente qualche problema di sviluppo dell’emisfero sinistro», scrivono Kenneth H. Heilmann e Stephen E. Nadeau dell’Università della Florida in articolo dedicato ai meccanismi nervosi della creatività, «notevolmente compensati dallo sviluppo dell’area posteriore e, soprattutto dalla crescita delle possibilità di integrazione di circuiti nervosi che si riferiscono a diverse abilità: ricettive, spaziali, matematiche e quindi immaginative». Del resto, l’influenza della capacità visiva e immaginativa sulla elaborazione matematica è confermata dalle affermazioni di Richard Feynman, premio Nobel per la Fisica, che dice di iniziare a pensare in termini di astratta rappresentazione visiva che poi traduce in termini matematici. Studi su persone normali, sottoposte a compiti creativi, mostrano all’elettroencefalogramma un incremento della coerenza delle oscillazioni elettriche tra aree nervose molto lontane tra loro a dimostrazione che la forte integrazione di circuiti diversi è la base biologica che sostiene il tipico comportamento creativo: l’allargamento degli orizzonti, il reclutamento di idee non immediatamente collegate, la rottura degli schemi. Infine, per consentire la produzione del pensiero divergente è necessario che il sistema che produce noradrenalina sia molto mobile.

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È CAPITATO a tutti di trovare la soluzione a un problema dopo una bella dormita, in una fase di rilassamento, oppure dopo alcune ore o giorni, quando non ci si pensa più. Alcuni risolvono questioni, anche non piccole, in sogno, come si racconta sia successo a August Kekulé, eminente chimico tedesco, che nel 1865 mentre ragionava, senza risultati, sulla struttura del benzene, si addormentò e sognò un serpente che si mordeva la coda. Svegliatosi, immaginò che la struttura del benzene fosse ad anello e così ancora la concepiamo! Sapersi concentrare e quindi attivarsi su un problema è assolutamente necessario se si vuol provare a risolverlo, ma un eccesso di attivazione e quindi di stress può essere controproducente. Ricerche recentissime di Gary Aston-Jones, neuropsichiatra dell’Università della Pennsylvania, sul sistema che governa l’attivazione cerebrale, basato sui neuroni che producono noradrenalina, collocati in un’area del tronco dell’encefalo chiamata Locus coeruleus, dimostrano che il meccanismo della creatività comporta una continua bilancia tra attività fasica e attività tonica. Nella fasica si ha un picco nella produzione di noradrenalina che consente al cervello di selezionare il compito da affrontare e di concentrarsi con determinazione. Nella tonica, il livello di noradrenalina si abbassa e ciò consente una notevole capacità di reclutamento di idee e una maggiore capacità esplorativa del nuovo. Si tratta in sostanza di sapersi concentrare senza agitarsi e, al tempo stesso, di distogliere l’attenzione dal tema, rilassandosi in profondità, senza perdere la capacità di tornare al tema, ma possibilmente con in testa nuovi elementi sollecitati ad emergere proprio dalla fase di rilassamento. Le persone che usano regolarmente tecniche antistress e meditative, che sono basate proprio su questa capacità di concentrazione e rilassamento, acquisiscono un habitus mentale che consente loro una maggiore produttività intellettuale e, possibilmente, una maggiore creatività.

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IL SOGNO e l’usignolo sono i due “modelli” da cui si spera di avere la soluzione del mistero della creatività. L’usignolo, col suo canto sempre diverso, è un ottimo modello perché ha un cervello molto più piccolo di quello umano. Più semplice quindi, scovare tra le strutture nervose, quella da cui sgorga la melodia sempre diversa e ricostruirne poi la struttura e il funzionamento.

Ma anche dalle ricerche sui sogni possono uscire scoperte. Durante questa fase nervosa, il cervello umano riduce in modo drastico la sua attività, “spegnendo” numerose strutture e riducendo di molto quindi le aeree dove indagare. In particolare, durante il sonno, si staccano sia le connessioni con le vie che portano le sensazioni e le strutture centrali che le elaborano e sia le connessioni con le strutture che elaborano e comandano le reazioni motorie. Si attiva, invece, solo quella parte di cervello che produce relazioni nuove tra le informazioni depositate. Che è l’essenza della creatività. Nonostante questi due modelli semplifichino molto il lavoro di ricerca, la creatività rimane ancora un mistero.

30/07/2015

f[r]ame

Filed under: News,Scritti — Daniele @ 8:52 am

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agosto 2015

 

Introduzione – Prof. Daniele Paolin – Responsabile progetto espositivo 

Il corso Processi e tecniche per lo spettacolo multimediale ha volentieri aderito all’invito del Direttore del Dipartimento di Progettazione, Prof. Roberto Favaro, ad una riflessione sul tema FAME/FEIM con particolare attenzione alla pronuncia ed al suo significato in lingua inglese: FAMA. Questo tema è stato sviluppato dagli studenti del biennio di specializzazione della Scuola di Nuove Tecnologie dell’Arte, nel corso del’A.A. 2014/15, in concomitanza con i preparativi per EXPO 2015 a cui la città di Milano ha dedicato sforzi organizzativi considerevoli.

Al tema della fama gli studenti hanno prestato un’attenzione del tutto particolare, innanzitutto come studiosi di nuove tecnologie, e poi come giovani “nativi digitali” particolarmente attenti, da un punto di vista critico, a fenomeni del tutto nuovi legati ai social network e a quella che viene comunemente definita “web-attenzione” in cui aspetti specifici e diffusi del concetto di “fama” inducono a comportamenti nei quali l’apparire diventa sempre più importante dell’essere.

Il fenomeno non è del tutto nuovo e già da qualche anno anche la letteratura psichiatrica si occupa di questi argomenti. Termini quali I.A.D. più in generale (Internet Addiction Disorder – dipendenza dalla rete, disturbo da discontrollo degli impulsi) e più in particolare S.N.D. (Sindrome Narcisistica Digitale) sono tutt’ora oggetto di ricerca e di studio. Secondo questi studi, la rete partecipativa (definita web 2.0) incoraggerebbe lo sviluppo della cultura narcisistica, arrivando a fenomeni parossistici sconcertanti come la web-tv personale online 24 ore su 24 o le cosiddette “impronte digitali” (digital footprints) lasciate in giro sui vari social per essere ri-conosciuti.

Esiste anche un quoziente numerico (chiamato QDOS) che calcola il numero di contatti per avere approvazioni, riconoscimenti o conferme e funziona quasi come un antidepressivo tecnologico o come vetrina per la propria vanità o per la ricerca di un non bene identificato successo: una sorta di digito ergo sum, come è stato definito.

L’approccio al tema della fama è stato dunque motivo di un’analisi minuziosa ed ogni studente ha intravvisto la possibilità di coinvolgere una platea molto più vasta nelle sue riflessioni attraverso i nuovi linguaggi dell’arte. Quasi un’autocritica da parte di nuove tecnologie che pur se è vero che hanno portato metodi innovativi di comunicazione e diffusione della cultura, d’altro canto possono portare ad una sorta di squilibrata “bulimia” tecnologica da cui è difficile uscire e che può presentare anche aspetti imprevisti molto pericolosi come ha ben evidenziato il film Disconnect di Henry Alex Rubin.

Queste considerazioni visive vogliono essere una sorta di segnale di pericolo, non spaventoso ma quasi ironico: un invito a valutare sempre e comunque la sostanziale differenza fra real-life e virtual-life e quindi evitare di confonderle o di creare equivoci e squilibrati mixaggi, come sostiene il sociologo e filosofo Zygmunt Bauman in un recente articolo:

[…]Va detto che il sopraccitato inventario dei vizi e delle virtù effettive e potenziali della suddivisione del Lebenswelt (“mondo della vita”) in un universo online e offline è tutt’altro che completo. […] Nonostante tutto quello che al momento si possa sostenere, una delle conseguenze meno allettanti riguarda il prezzo da pagare per i risultati più grandi ottenuti dall’universo online in termini di comodità, facilità, assenza di rischio e incoraggiando una tendenza a trapiantare le concezioni del mondo fatte a misura dell’ambiente online nel suo corrispettivo offline, a cui possono essere applicati a costo di un grande danno etico e sociale.

I temi

L’apparire e l’immagine di sé sono stati da subito oggetto di particolare attenzione ed analisi ma anche recepiti come centro di un neo narcisismo, ‘male’ psicologico dilagante, secondo gli esperti, che ha effetti negativi sulle relazioni personali ma anche come problema sociale, perché “i comportamenti narcisistici degli adulti – avvertono gli specialisti – minano le relazioni fra le persone, danneggiando l’efficienza di aziende e istituzioni”.

E “Lo schermo dello smartphone è la versione moderna del lago di Narciso, una superficie piatta, senza spessore, in cui ci si specchia. Con il selfie l’immagine viene rinviata su diversi canali e poi torna indietro: resta una continua ricerca della propria immagine”, spiega Paolo Chiari, segretario scientifico del Centro milanese di psicanalisi. Il narcisismo, continua l’esperto, “è la ricerca di un sé grandioso che ha bisogno di essere visto e ammirato, ma che nasconde carenze”.

Quali carenze? Soprattutto culturali, esistenziali, sociali, critiche: ci sono disastri personali, legati, all’incapacità di costruire relazioni, e sociali perché al narcisista manca la capacità di cooperare, di stare e lavorare insieme. Ha bisogno solo di primeggiare.

Attraverso l’uso dell’immagine, aggiunge Chiari, “testimonia un esserci che non è realmente sentito: insomma una conferma di esistere che viene rimbalzata attraverso dei mezzi, apparentemente di ‘comunicazione’, ma che in realtà restano in superficie e non permettono di creare vere relazioni”.

Il titolo dell’intervento espositivo prende il via dal termine “fame” che a seconda lo si legga in italiano o in inglese, acquista significati diversi ma che accusano qualche complementarietà anche nell’arte: fame/fama.

A tale riguardo Eugenio Barba, uomo di teatro, disse:
“Il sogno di godere della celebrità e il bisogno di sfuggire la miseria: la vita del teatro per secoli si è mossa fra queste due sponde trovandovi energia e consistenza.

Fama? Fame?

Le due sponde non sono un bivio. Opposte, ma sostanzialmente identiche, sono l’una complementare all’altra.”

Ed Andy Warhol, il famoso artista della Pop Art, negli anni ’60 ebbe a dire:

Nel futuro ognuno sarà famoso al mondo per quindici minuti!”. Quasi una profezia.

I significati

L’ambiguità del termine italiano/inglese di “fame” (fama) è interrotta nel titolo da una [r] che la trasforma in “frame” il cui senso letterale è “cornice”, “struttura”, ma come sempre capita nella lingua inglese, a seconda si riferisca ad ambiti e campi diversi, assume altri significati: nel cinema “fotogramma” o immagine fissa, in informatica “pacchetto di bit che costituisce un’unità strutturata di informazioni”, nella semantica “codifica un oggetto, un evento o una situazione identificando le unità lessicali che lo denotano e i ruoli semantici che vi partecipano” ecc.

Fame-frame è apparso da subito un collegamento fra fama ed immagine-frammento video, uno dei settori di applicazione degli studenti della Scuola di Nuove Tecnologie dell’Arte.

Frame è quindi la cornice in cui siamo inseriti, la cornice entro la quale veniamo visti, la struttura che regge il fatto di esistere digitalmente: gli attimi che si succedono altro non sembrano che frame delle nostre vite.

Sequenza dopo sequenza “the life goes on”… e senza una cornice ci si sente nessuno: somma paura contemporanea dell’anonimato, un anonimato che non lascia tracce. Che cosa di più adatto e di più utile se non l’informatica, la rete, il digitale per lasciar traccia?

Ma frame, nell’accezione informatica, altra materia alla base degli studi di Nuove Tecnologie dell’Arte, ha il significato di “pacchetto di bit che costituisce un’unità strutturata di informazioni” e cioè la traduzione di piccoli concetti che si fanno comunicazione, mostra, esposizione, come in questo caso.

Le riflessioni

Il gruppo di studenti che ha indagato su questi temi, lo ha fatto in maniera critica soprattutto nei riguardi degli strumenti, dei device dei social in rete, della tv commerciale, mondi che si stanno contaminando in una sorta di forsennata corsa verso l’omologazione, la convenzione culturale e sociale, l’appiattimento e relativo consumo seriale. Non risparmiando neppure numerosi aspetti dell’Arte “ufficiale”. La discussione è stata serrata e le individualità hanno ben presto lasciato il posto ad una convergenza sostanziale, soprattutto sui contenuti. Interessante è stato soprattutto il dipanarsi di sfaccettature e sfumature che inizialmente sembravano inconciliabili. Si è verificata una sorta di metamorfosi che il filosofo Mario Costa, studioso dell’impatto delle nuove tecnologie sull’arte e sull’estetica, ha così ben definito in una recente intervista:

Più che “artisti tecnologici” io preferisco chiamarli “ricercatori estetici”. […] non sono affatto convinto che la funzione dell'”artista”, di quello che una volta era l'”artista”, oggi sia venuta meno, sia inutile e debba essere eliminata. Sostengo, viceversa, che il ruolo dell’artista sia profondamente mutato. Gli artisti tecnologici o i ricercatori estetici devono oggi rinunciare – e lo fanno già – ad alcune componenti fondamentali di quello che era l’artista della tradizione. Loro lavorano prevalentemente sul piano del concetto […] Il concetto è condivisibile. Questo significa che la produzione può essere, deve essere, e in molti casi lo è già, una produzione concertata, collettiva. Significa che la proprietà esclusiva dell’opera è una nozione arcaica, così come lo stile che una volta caratterizzava l’artista […] è l’artista che tende assolutamente alla proprietà esclusiva dell’opera. Molti artisti tecnologici hanno già superato, nei fatti, tutto questo.[…] Oggi, a mio avviso, l’estetica deve molto di più tematizzare, molto di più problematizzare la situazione che le nuove cose, le nuove tecniche, le nuove energie ci hanno costretto a considerare. Una vera e propria riflessione estetologica su quello che sta avvenendo oggi […]

Siamo continuamente bombardati da stimoli, opinioni, notizie, report, indagini; bocche, occhi che parlano, si sovrappongono in un rumore di fondo, un noise che disorienta, fisicamente, psicologicamente. E quando cerchiamo di isolare qualche segnale, rendendolo vagamente più distinto e comprensibile, sovente la sensibilità dell’artista viene pervasa da una sorta di delusione di contenuti, di vacuità del messaggio, dell’inutilità della comunicazione. La fame di bellezza, la fame di cultura, la fame di sapere viene disattesa, in uno spreco comunicativo che avrebbe altro valore sociale.

Non resta che l’isolamento: il costruirsi uno spazio, una sorta di “tana”, quello che è stato definito uno pseudo-ambiente parzializzante ed esclusivo. Un foro stenopeico attraverso il quale analizzare particella per particella, non considerando più un “tutto”.

Logica conseguenza è rivolgersi all’io, un’attenzione che in teoria avrebbe un’importanza fondamentale sfrondandola dai pericolosi gorghi dell’egoismo, dell’egocentrismo e del narcisismo. Il continuo richiamo, però, della giungla sociale, al suo corteggiamento consumistico, alle sue promesse, alle sindromi di celebrità e successo, porta definitivamente verso l’alterazione della propria immagine: si scopre, a torto o a ragione, di essere pieni di difetti, fisici, psicologici, caratteriali, esistenziali, che poco hanno a che fare con la vera omologazione e che pertanto sfocia nella paura di non essere nessuno.

Nasce il bisogno di “ritoccare” la propria immagine, di renderla “fruibile”, diffondibile, fino ad alterarne i dati. Quello che era il vanto di Odisseo cade miseramente dentro una vera e propria fobia… Complice quel dispositivo piatto continuamente illuminato che è lo schermo: solo oltrepassandolo saremo qualcuno! Uno Stige al contrario…

Esiste un Prima e un Dopo: prima di attraversare quel monitor riusciamo ad avere quella che viene definita spontaneità, probabile vera essenza personale; ma attraversato quel velo di Maya (Der Schleier der Maya, dunque l’invenzione di Arthur Schopenhauer, coniata per la prima volta ne Il mondo come volontà e rappresentazione) non siamo più noi, né nella postura, né nell’atteggiamento e quindi non ci assomigliamo più, siamo altro, quell’altro che cerchiamo di essere e che ritocchiamo in continuazione. Lo si può notare in quel fenomeno ormai abusato quale il selfie: invasione di autoritratti dalla spontaneità eccessiva, smisurata, sbilanciata, che strizza l’occhio al compiacimento goliardico nel ridicolo della sua inutilità.

Ovvio che la proliferazione di qualsiasi fenomeno venga assorbita da un “mercato”, sempre più attento alle metamorfosi, pur se malate, della società contemporanea..

« In tutte le civiltà umane esiste l’idea di mercato come luogo deputato all’incontro tra persone con bisogni diversi che desiderano scambiare beni e servizi. La caratteristica dei mercati di oggi è che lo scambio è guidato non dai bisogni, ma dal profitto. È pura ideologia pensare che la società possa funzionare al meglio lasciando i mercati liberi di perseguire il profitto, e che i mercati possano operare efficacemente soltanto limitando le interferenze al minimo. Le regole che governano il funzionamento dei mercati sono stabilite dai potenti; il nostro dramma è aver permesso che questo accadesse »

(Raj Patel, Il valore delle cose e le illusioni del capitalismo, p.27)

Il mercato dunque s’impadronisce di questi fenomeni e li razionalizza in un “allevamento”, dentro metaforiche stie da cui è quasi impossibile uscire e che costringono a produrre in continuazione.

Ma è proprio la rete che ci apre gli occhi: come riferisce il sito Wired, lo studente di architettura André Ford ha elaborato un’idea del professor Thompson, suggerendo la “soluzione pollo senza testa.”

Questa implica la rimozione della corteccia cerebrale dell’animale per attenuare le sue percezioni sensoriali, in modo che possa essere allevato nelle condizioni di affollamento senza tanta sofferenza. Il tronco encefalico rimarrebbe intatto, in modo da permettergli la crescita.

Il ragionamento alla base della proposta del signor Ford è stato duplice: soddisfare la crescente domanda di carne e migliorare il benessere dei polli togliendo ad essi la sensibilità agli orrori della loro esistenza.

Una produzione de-mente… Ma è altrettanto ovvio che la rete, se da un lato permette l’informazione e la diffusione di concetti, notizie, idee, dall’altro può essere bugiarda: è un altro aspetto delle facili credenze e delle facili opinioni che ci si possono fare in rete. “Siamo caduti nella rete” è una metafora di una altrettanto probabile realtà.

Qualsiasi bugia, scientifica o meno, viene assorbita, digerita proprio come il mangime per i polli nella stia. Pertanto molte persone, in assoluta bona fede e possedendo nella maggior parte dei casi anche un livello di cultura medio alta, diventano strumenti inconsapevoli di un meccanismo perverso, che in molti casi ritornerà anche a distanza di anni, perché essendo la Rete bulimica, la notizia verrà dimenticata in un giorno, ma ritornerà.

Solo il vecchio metodo della citazione della fonte e della sua competenza potrà fermare questa bulimia? Oppure il rinnovamento di un metodo critico nell’intero sistema educativo?

Meccanismo perverso bulimico e voyeristico, dunque, che ci porta a filtrare la realtà, tanto da confonderla, nella sua apparenza spesso così fedele, con l’esistenza stessa.. Si è quello che si vede, ma non è proprio così… Passiamo indifferentemente fra una realtà suggerita ed una vissuta in modo eccessivamente disinvolto, sempre più spesso confondendole.

L’arte e la sua percezione sono vittime quasi dello stesso processo: le grandi firme fagocitano ogni tensione creativa sul cosiddetto “mercato”. Il divismo in architettura e arte ha letteralmente inebriato e polarizzato tutte le attenzioni dei media: il nome più che la creazione e le sue motivazioni attraggono il cosiddetto “grande pubblico” ormai degente, ma la realtà dello studio quotidiano di migliaia di studenti che si apprestano a diventare degli operatori nei settori artistici è fatta di solo sacrificio, di abnegazione, di impegno, nell’ombra degli studi, degli atelier, delle aule, di biblioteche, senza nessun tipo di riconoscimento e valorizzazione sociale o di approvazione mediatica e sempre più spesso con un futuro incerto o nebuloso. Ma si dimentica che molti di loro saranno i protagonisti della futura cultura: anonime creature, anonime figure che produrranno bellezza quand’anche non la producano già. Esiste una dissociazione palese, in questo caso, fra arte-fatto e art-ista, risultato di fenomenologia pubblica dicotomica.

16/12/2011

Modelli in ascesa, modelli in discesa

Filed under: Scritti — Daniele @ 10:29 am

Premessa

Ultimamente sono stato combattuto interiormente da una serie di sensazioni di natura profondamente diversa, ma accomunate da un stesso senso di vuoto deludente. Ho passato una vita all’insegna della prassi artistica e teatrale, costantemente alla ricerca di soluzioni esteticamente e visivamente ottimali rispetto alle necessità e disponibilità sia di tempo (per ottenerle) sia di costi (il più possibile contenuti). L’efficacia delle soluzioni che si possono creare ha allenato la mia mente a puntare direttamente a questo obbiettivo, attraverso scorciatoie logiche, semplici, chiare, possibili e quindi praticabili, non sempre peraltro percorribili, anche con una estrema applicazione ed impegno. Ho soprattutto capito nel tempo – ma molto presto – che come “artista”, inteso nel termine tradizionalmente riconosciuto, non avevo niente da dire e mi sono gettato a capofitto nella cosiddetta arte applicata (non so se pur sempre arte, dilemma per me irrilevante). Questo sul versante della mia attività professionale. Sul versante invece dell’insegnamento e della divulgazione, mi sono sempre sforzato di essere soprattutto chiaro, in primis, in tutto quello che esterno (lezioni, conferenze, articoli, spettacoli), ma anche su quello che poi pretendo quando sono chiamato a dare un giudizio (rappresentato dall’esame) sul singolo studente. Perché attraverso la mia esperienza di docente ho capito che la chiarezza (e la fatica e lo studio per ottenerla) è un’arma fondamentale nella comunicazione didattica (e non), la quale deve costantemente lottare invece con una serie di sovrastrutture basate su modelli diffusi e negativi che rendono assai difficile mantenere un livello “alto” di logica e di chiara comprensibilità. Soprattutto quando si tratta di argomenti – chiamiamoli – artistici, i modelli assumono un significato importantissimo, essenziale. Tutto ciò – ho capito, riferendomi ai modelli – ha profondamente condizionato soprattutto la seconda parte della mia esistenza, l’età della maturità. Spero nelle prossime righe di arrivare dipanare una serie di pensieri e quesiti che sempre più spesso mi capita di pormi.

Che succede?

1.0 – Letteratura. E’ ormai da qualche anno – la mia scarsa memoria non è in grado di individuarne la quantità – che mi succedono fenomeni strani, anche se ultimamente credo di averne individuato la causa. Dopo un’adolescenza ed una maturità che mi hanno visto divorare qualsiasi tipo di testo narrato, mi capita, per esempio, di tentare di leggere ancora qualche libro di narrativa, anche scritto bene, di discreto fascino, ma purtroppo di non riuscire ad andare oltre la quarantina di pagine… Per contro apprezzo sempre di più argomenti e stili giornalistici soffermandomi sempre più spesso sulle “lettere al direttore”, più fresche, dirette, “vere” e sulla bellezza di uno stile di scrittura immediato, ma non semplicistico, efficace ed esaustivo al tempo stesso su cui i miei occhi e la mia mente non si stancano, ma scorrono leggeri e desiderosi soprattutto di conoscere e di capire la realtà e la complessa fenomenologia che ne è alla base. Tutto farebbe pensare ad una pigrizia letteraria incipiente. Ma quando mi trovo – abbastanza spesso – a leggere un saggio su un argomento che mi interessa particolarmente riesco a “divorarlo” in tempi accettabili. Credo sia essenzialmente una questione di rapporto fra stile di scrittura (forma) – vs. – contenuto (sostanza) che mi attira. Ed ho finito col capire che essenzialmente le “storie” non mi interessano (più); la poesia – per sua natura sintesi – un po’ (di più)… Ho soprattutto capito il fastidio che esercita il loro potere di distrarmi dalla (più interessante) realtà, dal pensiero e dalle sue proprietà e potenzialità evolutive. Oppure può darsi che la realtà abbia ormai superato qualsiasi livello e modello di invenzione?. Scendendo di un gradino noto che un numero sempre più crescente di persone si dedica alla scrittura ed alla poesia. In virtù di cosa? E soprattutto, mi chiedo, è un bene?

1.1 – Arte.

Riesco sempre meno a sopportare l’arte e gli artisti – parlo esclusivamente della contemporaneità -. Non amo particolarmente chi si autodefinisce artista: lo amo ancor meno quando – nella maggior parte dei casi – vedo il materiale che produce. Diverse sono le sensazioni che ho quando vedo – sempre meno spesso – qualche mostra, anche di una certa importanza. Avevo sempre vissuto all’insegna del motto “vedere il più possibile” soprattutto nel campo dell’arte. Ora sempre più spesso avverto un disagio, vicino al disinteresse sia sul piano emotivo (importante) sia sul piano della pura curiosità. Le opere contemporanee mi emozionano e mi attraggono sempre meno e mi chiedo: è colpa mia e quindi di una mia metamorfosi mentale nel tempo (vecchiaia) o è proprio colpa dello scarso interesse che suscita in generale l’arte contemporanea? Finisco per vedere, in opere considerate “nuove” o “novità”, delle assonanze col passato, una sorta di “déjà vu” e tutto questo finisce per annoiarmi a morte. (Sarò mica snob…??? Non credo!). Ci sono, ma sono sempre meno gli esempi che possano far pensare ad una evoluzione, ad un nuovo modo di vedere e di sentire la realtà che ci circonda, ad una nuova sensibilità verso i numerosi fenomeni che ci investono. Abbiamo parlato di arte e di artisti affermati. Ma, scendendo di un piano – sotto un profilo peraltro discutibile di importanza -, guardo le opere dei dilettanti e cioè di coloro che lo fanno per passatempo o per “passione” e che solitamente hanno poca preparazione sia sul piano tecnico che su quello dei contenuti. Procedono molto soprattutto per emulazione (dei cosiddetti grandi…) ma lo fanno col desiderio naïf di essere considerati già a tutti gli effetti “artisti”: finiscono per emularne anche i difetti… Anche qui avverto disagio e noia, per essere definitivamente sinceri. E mi chiedo il perché naturalmente. Non è forse giusto che chiunque ne abbia il desiderio (sincero e legittimo) non possa provare a dipingere, ma anche scrivere, recitare ecc.? E’ una costante nei miei pensieri, ma allora perché avverto un senso di disagio che rasenta il rifiuto? La cosa mi preoccupa…

1.3 – Spettacolo.

I quesiti descritti in precedenza trovano riscontro anche in campo teatrale, campo in cui ho sempre gravitato professionalmente. Vado a teatro e vedo…vedo regie che tentano di imitare i grandi registi, spesso senza nessuna ricerca vera di nuovi linguaggi espressivi (tranne pochissimi esempi), senza averne né i mezzi economici, né quelli intellettuali. Vedo, per contro, registi – considerati grandi – che aspirano paradossalmente ad un livello amatoriale, sgrammaticato, un po’ confusionario, come nuova frontiera di studio e di ricerca linguistica, ma dopo esattamente dieci minuti in cui sono seduto ad aspettare che succeda qualcosa in palcoscenico, mi alzo e me ne vado (perché un’accozzaglia di urla, rumori e recitazioni da pollaio non conducono a nulla di comprensibile e soprattutto senza una vera dose di “spettacolo” nell’accezione più pura del termine…). Tutto sembra inglobarsi in una sorta di polpettone indistinguibile in cui manca soprattutto l’esplicitazione, la chiarezza, il messaggio indirizzato, toccante, senza sovrastrutture e complicazioni, comprensibile, diretto, le sole qualità rimaste quale patrimonio esclusivo del teatro. E poi? E poi, critiche acefale, paroloni, invenzioni linguistiche a supporto… del nulla. Per contro le poche, vere ricerche in campo teatrale non si possono vedere: o sono all’estero o non sono affatto pubblicizzate o sono addirittura boicottate (ideologicamente e finanziariamente). Sembra quasi sia diventato facile fare teatro, alla portata di tutti. D’altronde la media delle trasmissioni-concorso televisive sempre più frequenti inducono giovani e meno giovani a pensare che il successo sia lì, a portata di mano, anche senza un grande talento e senza una dose eccessiva di studio.

1.4 – Musica

C’è un campo artistico in cui è più difficile, credo, “barare”: la musica. Suonare uno strumento, comporre, cantare leggendo la musica, sono tutte operazioni che richiedono un percorso disciplinare obbligatorio: bisogna conoscere la teoria del solfeggio, impadronirsi di uno strumento attraverso l’esercizio costante e molti altri studi e perfezionamenti ancora. Non c’è altro modo…Ma la musica contemporanea (“pop” che sta per popolare) – quella che si sente soprattutto dentro le cuffiette degli adolescenti – ne può anche fare a meno. Un campionatore, una base ritmica, un programma di sound-editing ed altre diavolerie elettroniche mixate ad un discreto “buon gusto” musicale possono creare delle “compilations” accettabilmente gradevoli (anche se mono-tone). Sembra anche questo estremamente facile ed accessibile. Anche se con risultati di dubbia qualità compositiva.

Conclusioni

Perché, allora, questa specie di ulteriore lamento in un mondo di sempre più frequenti e scontati lamenti? Considero pericolosa la china che stiamo percorrendo per una serie di conclusioni a cui sono giunto. Il raggiungimento di certi obbiettivi “facili” o facilmente (o falsamente) accessibili inducono a pensare che molta parte della cosiddetta Arte sia alla portata di chiunque e soprattutto con molta semplicità e poco sforzo. Non credo sia così, non credo sia possibile, non per me almeno. Dobbiamo soprattutto soffermarci a pensare al fatto che quando produciamo o semplicemente copiamo qualcosa, il nostro prodotto assume – volenti o nolenti – un’etichetta che porterà a confronti, a comparazioni, ad equazioni, a valutazioni proporzionali. Mi spiego meglio: quando una mente giovane, semplice o soltanto impreparata, primitiva, vede un prodotto (considerato) artistico o vi si accosta, di qualsiasi livello sia, crede che questo sia un “modello” possibile di Arte (con la A maiuscola) a cui fare riferimento. Se il modello è o soltanto sembra “facile”, diventa inevitabilmente un punto di rimando con la semplice e lineare proporzione: se questa è arte, anch’io ne posso produrre. E poi successivamente, semplificando: tutta l’arte è quindi accessibile a tutti. Questa specie di “accessibilità” diffusa, unita ad un senso malinteso di totale “libertà espressiva” ha modo di provocare danni, secondo me, enormi. E’ figlia dell’istintivo “mi piace: non so perché ma mi piace” e basta. Non è figlia del “mi piace perché….”. Esclude qualsiasi ricerca e curiosità sulla motivazione tecnica, storica, sociale, culturale. Esclude l’acquisizione consapevole e quindi l’evoluzione diffusa, capillare del gusto. E più i modelli sono “bassi”, più seguaci hanno in questa perversa logica, proprio perché hanno un alto grado di “accessibilità”: come si suol dire (televisivamente), lo “share” è altissimo. Diventa una corsa verso il basso, non un’evoluzione, ma un’involuzione: l’esatto contrario di quello che dovrebbe succedere e che è successo nei periodi storici più “felici” (vedi alla voce “Rinascimento”).

dp

29/03/2011

contrasti lirici

Filed under: Scritti — Daniele @ 9:01 am

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31/05/2010

Etica Minima. Scritti quasi corsari sull’anomalia italiana

Filed under: Scritti — Daniele @ 7:55 am

Il nuovo saggio del filosofo Pier Aldo Rovati

Brano tratto dalla prefazione del libro Etica Minima. Scritti quasi corsari sull’anomalia italiana

Prendiamo cinquanta scene dalla cronaca italiana degli ultimi tempi: dal caso Eluana, che ha suscitato un’emozione nazionale e un dibattito acceso sulla vita e la morte, fino alla “battaglia” di Rosarno, scoppio di una contraddittoria e ormai conclamata xenofobia, su cui è subito sceso il silenzio, forse anche perché quella battaglia l’abbiamo persa tutti. E fino al fango della corruzione legata agli appalti della Protezione civile, una gelatina fangosa che sembra insinuarsi dappertutto. (. . .)
Sono indizi, grandi e piccoli, locali e globali, di un comportamento della società e degli individui, del governo e dei governati; segnali che ho selezionato, di volta in volta, allo scopo di costruire un concreto fondale dell'”anomalia” in cui ci troviamo a vivere e nella quale si mescolano il pubblico e il privato, e la realtà delle cose appare imbevuta di finzione, come se non fossimo più in grado di districarci da una narrazione “televisiva”, certo più drammatica che divertente, e avessimo così, perduto il bandolo delle nostre esistenze.
La verità, ecco il punto. Come possiamo praticarla in questa situazione? L'”etica minima”, come la chiamo, altro non è che la soglia di resistenza, il livello di sopportazione sotto il quale non possiamo scendere, non tanto e non solo come uomini e donne, ma in quanto cittadini che hanno diritti e la cui soggettività sociale non può essere compressa oltre un certo limite. Non è il lamento del pessimismo che mi interessa, ma l’esercizio quotidiano della critica e l’obiettivo che esso può raggiungere, cioè l’affermazione della ragionevolezza: la possibilità di praticare ancora la verità, anzi soprattutto ora, nonostante il sipario sembri ormai calato su questa pratica.
Vorrei intanto dichiarare alcune somiglianze di famiglia. L’etica minima è figlia del pensiero debole. Ne eredita soprattutto l’idea che la verità vada disarmata, spogliata dalla sua pretesa assolutistica e da tutti gli effetti di potere che questa pretesa produce. Compresa la presunta verità della morale che spesso sale in cattedra pretendendo di dettare le condotte, ma che di fatto si allontana dalla loro concretezza allo scopo di governarle. E servendosi di una serie di dispositivi (paura, allarme, panico) che immobilizzano le coscienze e i corpi. Così, l’impalpabilità del pensiero debole (roba da filosofi!) svanisce: l’etica minima si pianta nella concretezza del fare, e uno stile di vita, un’organizzazione della propria esistenza. E’ tutta piegata sul particolare e sulle singolarità. Non ha alcun interesse a stare a civettare con la filosofia. E’ una politica della soggettività.
Un’altra importante affinità di famiglia avvicina l’etica minima agli Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini (…). L’anomalia italiana è diventata un continuo cortocircuito fra “realtà” e “reality” (e Pasolini aveva pure intravisto la deriva “televisiva” che stava prendendo). E la politica che ci governa è diventata una “psicopolitica” che gestisce, oltre che i corpi, le nostre stesse emozioni. Non è solo il governo della paura e grazie alla paura, ma la pratica del consenso attraverso i media, attraverso un’ ambivalenza tra realtà e finzione, appunto quel cortocircuito, che produce, quasi ogni giorno, un’altalena emotiva fra ciò che va male e ciò che va bene, tra il clima di odio (complotti ovunque) e l’annuncio del migliore dei mondi (il terremoto e la crisi ormai alle spalle).
Ogni tanto questa colla si sbriciola un poco e si rivela per quella ideologia che è. Ma una collosità diffusa continua a pervadere ogni cosa, immobilizzando i corpi e le anime di ciascuno in uno stato di torpore da cui nessuno è immune e che tutti, in diversa misura, contribuiamo ad alimentare. Prevale così il cinismo generale della furbizia e dell’egoismo degli interessi. Chi lo nega è un ingenuo, e nessuno in questa società avvolgente e collosa si sentirebbe di sventolare una bandiera così poco promettente. E poiché il corto circuito fra realtà e reality si raddoppia in un altro cortocircuito assai poco virtuoso, quello tra il pubblico e il privato, i potenti cercano di salvarsi con la favola del gossip, e i meno potenti qualche volta soccombono dentro i cosiddetti scandali. Tutti gli altri guardano stupiti, ma nessuno sa come trattare tale mescolanza se non riducendola al luogo comune di una privacy “sacra” cui nessuno, però, crede davvero.

11/05/2010

Diffidate dei miti mediocri

Filed under: Scritti — Daniele @ 12:25 pm

“Artista: suona più come un titolo che come descrizione di un lavoro. E’ una parola che detiene ancora un considerevole rispetto. La gente la associa a splendore e miseria, alla ricerca della libertà e ad in’inspiegabile indipendenza. Sembra che gli artisti conducano vite avventurose, che precorrano i tempi, creino le opere più nobili di tutti gli esseri umani e che il loro intrepido coraggio fomenti le incomprensioni dei filistei e le persecuzioni dei dittatori. Gli artisti sono gli unici creatori, i geni incontestati, la loro fama e quella delle loro opere deriva direttamente dal talento ricevuto in dono da Dio. La passione devota che mettono nel loro lavoro è frutto dell’intuizione e dell’intelligenza che possiedono per conto dell’intera umanità. Sono sempre progressisti e interessati alle cause sociali, sempre dalla parte dei deboli ma, ricchi o poveri che siano, vivono sempre in una posizione privilegiata. E’ incredibile che chiunque preferisca fare l’artista piuttosto che affrontare la vergogna di un lavoro normale. Ma l’immagine dell’artista prima o poi verrà ridimensionata, non appena la società comprenderà quanto è facile fare l’artista, mettere (o togliere) su una tela qualcosa che non tutti riescono a capire e quindi non possono criticare. Quanto è semplice darsi un tono, recitare una parte che si fa gioco di tutti, persino di se stessi. Ma prima o poi, essere definiti artista farà venire la nausea”.
(Tratto dal libro di Gerhard Richter, La pratica quotidiana della pittura di Hans Ulrich Obrist, ed. Postmedia Books)

05/05/2010

Postulato di Gardner

Filed under: Scritti — Daniele @ 11:43 am

Io dico sempre che l’informazione non è la stessa cosa della conoscenza,
che la conoscenza non è la stessa cosa del giudizio,
e il giudizio non è la stessa cosa della saggezza.
Sono necessarie delle persone sagge, Internet
non aiuta a divenire saggi.

Ognuno è in grado di mettere qualsiasi cosa nel Web mondiale,
e per questa ragione i pericoli disponibili sono maggiori,
e, di conseguenza, si deve essere dei migliori scopritori
di pericoli.

04/05/2010

Arte e scienza

Filed under: Scritti — Daniele @ 11:00 am

LEONID PONOMAKEV
In Quest of the Quantum

Lo scienziato sovietico Leonid Ponomarev ha dato un’efficace descrizione dei due modi di conoscenza dell’uomo: «Da molto tempo sappiamo che quello scientifico non è che uno dei metodi per studiare il mondo circostante. Un altro metodo, a questo complementare, è realizzato dall’arte. Il coesistere di arte e scienza è di per sé un’ottima esemplificazione del principio di complementarità. Ci si può dedicare totalmente alla scienza o vivere esclusivamente d’arte: entrambi i punti di vista sono egualmente validi, ma presi separatamente sono incompleti. La spina dorsale della scienza è costituita dalla logica e dalla sperimentazione; il fondamento dell’arte è l’intuizione e la penetrazione. Ma l’arte della danza richiede una precisione matematica e come ha scritto Puskin: ‘In geometria l’ispirazione è necessaria quanto in poesia.’ Le due sfere si completano, non si contraddicono. La vera scienza è parente dell’arte, e l’arte vera ha sempre in sé degli elementi scientifici. Esse riflettono aspetti diversi e complementari dell’esperienza umana e ci offrono un’idea globale del mondo soltanto se prese insieme. Purtroppo noi non conosciamo il ‘rapporto d’ambivalenza’ dei due concetti congiunti ‘scienza e arte’. Di conseguenza non possiamo valutare il danno che ci deriva dalla percezione unilaterale della vita.»

Parsifal: “VEDI, FIGLIO MIO, QUI IL TEMPO DIVIENE SPAZIO”

Filed under: Scritti — Daniele @ 10:03 am

“Dentro” l’opera di P. L. Pizzi

Parlando di P. L. Pizzi non possono non venire in mente le parole di Gérard Fontaine che fanno da introduzione al bellissimo catalogo della mostra di scenografie “SOGNO E DELIRIO” (Accademia di Francia – Roma – 1997), in cui afferma che l’opera è un sogno in musica ad occhi aperti, un sogno che si vuole rappresentare nel modo più concreto e più persuasivo possibile. Come il sogno, anche l’opera ha bisogno di affidarsi ad immagini visivamente suggestive; per questo, nell’opera, la scenografia non svolge un ruolo accessorio, bensì indispensabile. E questo a dispetto della sempre più frequente abitudine di mettere in scena l’opera senza scenografia e costumi. Per svolgere appieno la sua funzione, la scenografia, secondo Fontaine, deve: essere onirica, interagire con la materia del sogno, e dunque essere mobile e persuadere per quanto possibile lo spettatore che quello che sta vedendo sulla scena è reale; deve quindi essere realista. Onirismo, mobilità e realismo: questi i temi attorno ai quali si articola il discorso sulla scenografia d’opera.
L’onirismo, il sogno, la visione, tempo e movimento riescono a raccogliere credibilità nella nostra percezione, soltanto quando ogni cosa concorre alla concretezza dell’osservazione: tutto ci deve convincere della realtà della visione che è cosa assai diversa della rappresentazione della realtà nell’accezione più comune del termine. Molti sono gli elementi che ci convincono che “SO DOVE SONO, MA DOVE SONO, NON SO DOVE SIA”. (François Régnault – Histoire d’un Ring): crediamo sia questo il senso della scenografia in Pizzi. Tutto è diretto e concentrato nell’azione drammatica, sinteticamente richiamato da elementi e movimenti essenziali, da spazi ed architetture equilibrati e da una luce di cui Appia ha dato l’affascinante definizione di “musica dello spazio”. Nessuna concessione ad un inutile decorativismo.
Realtà della visione, quindi, e non visione della realtà.
Tutto ciò richiede innanzitutto una grande cultura, un attento studio, una grandissima capacità interpretativa e drammaturgica ed una abilità progettuale straordinaria: ho avuto modo di vedere dei piccoli schizzi preliminari a penna sui quali Pizzi è solito formulare le sue valutazioni e pre-visioni su quello che poi diventerà il suo progetto e poi lo spettacolo; quei veloci tratti di penna rivelano un pozzo di sapienza storica e stilistica, di abilità grafica, ma soprattutto di precisione dimensionale, dote decisamente assai rara, ma preziosa.
Dunque quei piccoli pensieri grafici diventeranno grandi superfici, enormi volumi, spazi mutevoli, reali masse architettoniche o sculture semoventi: sembra quasi un miracolo o quantomeno il risultato di una sorta di magia.
Dietro la vera e propria metamorfosi che trasformerà queste piccole forme in veri, giganteschi elementi scenici mobili – i cosiddetti “coadiuvanti” – che consentiranno le affascinanti variazioni che asseconderanno armonicamente la progressione drammatica, ci sono delle esperienze, delle culture, dei saperi molto particolari, specialistici, che il grande pubblico non conosce, ma che rappresentano una vera e propria “sapienza storica” teorica e tecnica, formatasi alla sola scuola della pratica di palcoscenico, nella prassi teatrale.
Sono una schiera di abilissimi operatori di alto-artigianato, di artisti di un’arte applicata, antica, capaci di rendere un incerto prototipo (perché ogni scenografia questo è…), in tempi brevissimi e soprattutto con costi accettabili, una macchina teatrale sicura, affidabile, funzionale e funzionante, ma soprattutto magnifica, extra-ordinaria, al di fuori della normalità.
Magia forse? Si potrebbe, non senza una certa enfasi, definirla anche così. Ma è “solo” sapienza, lavoro, capacità ed esperienza. Un’esperienza che affronta ogni tipologia di novità ed imprevisto come rientrasse nell’assoluta quotidianità: lo straordinario diventa normalità. Viene quasi alla mente l’antesignano scenografo e scenotecnico di epoca barocca, Torelli, che per i suoi “magnifici ingegni”, tutti definivano “lo stregone”.
Uno di questi scenotecnici, Vanni Delfini, fondatore della Delfini Group che ha spesso realizzato progetti di Pizzi, raccontando delle sue prime esperienze di lavoro nel campo della costruzione teatrale ricorda:«Cominciai con l’accettare lavori che tutti gli altri rifiutavano: per me erano ogni volta sfide stimolanti».

Memoria per la commissione tributi

Filed under: Scritti — Daniele @ 9:13 am

Daniele Paolin

– Pittore Scenografo –

Memoria sull’evoluzione di una professione

La professione dello scenografo, nel mio specifico caso, si è sempre divisa fra insegnamento, realizzazione e progettazione della scenografia teatrale. Tralasciando l’insegnamento accademico che è pur sempre una parte importante, ma subordinato ad un’assunzione a tempo indeterminato in ruolo dello Stato, e quindi ad un reddito fisso e tassato, l’attività autonoma è stata incentrata sulla parte più pratica ed artigianale della professione e cioè la pittura e la realizzazione di grandi superfici per gli allestimenti scenici.
Tale attività ha contrassegnato, dopo un lunghissimo periodo di apprendistato, gli anni ottanta fino all’ormai tristemente noto 1996 (anno in cui bruciò il teatro) soprattutto con contratti molto frequenti quasi esclusivamente per La Fenice di Venezia. E’ chiaro quindi che in quel periodo si riscontrassero introiti continuativi di una certa rilevanza.
Una volta distrutta La Fenice ed essendo quindi terminata in quel teatro la produzione autonoma delle scenografie e, con lei, una frequente fatturazione, per qualche tempo ho svolto la stessa attività saltuariamente in qualche ditta privata che si occupava di costruzione e pittura delle scene. Ma in questi ultimi anni, l’uso della pittura è andato tramontando, soppiantato o sostituito dalle grandi immagini proiettate da apparecchi sempre più potenti e precisi per le grandi superfici.
Gradatamente sono passato quindi a svolgere principalmente un’attività di consulenza scenotecnica per il recupero di qualche teatro della zona e, in fase successiva, di progettazione delle scene, anche in seguito ad un certo logorio fisico emerso col tempo a causa della particolare natura del lavoro manuale di pittura svolto a lungo in precedenza (tendinite ai gomiti e problemi alla schiena).
Ma purtroppo nell’ultimo periodo gli investimenti nel settore dello spettacolo hanno segnato un vistoso calo e sempre più spesso gli allestimenti teatrali sono oggetto di scambio fra teatro e teatro o di coproduzione fra più enti: si producono e si progettano sempre meno nuovi allestimenti; ecco allora che le committenze sono sempre più rare al pari delle consulenze.
Per questa serie di motivi gli introiti sono sensibilmente diminuiti e, soprattutto nell’ultimo periodo, sto valutando la seria opportunità di chiudere la mia posizione di professionista autonomo per dedicarmi esclusivamente all’insegnamento.

In fede
Daniele Paolin

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