agosto 2015
Introduzione – Prof. Daniele Paolin – Responsabile progetto espositivo
Il corso Processi e tecniche per lo spettacolo multimediale ha volentieri aderito all’invito del Direttore del Dipartimento di Progettazione, Prof. Roberto Favaro, ad una riflessione sul tema FAME/FEIM con particolare attenzione alla pronuncia ed al suo significato in lingua inglese: FAMA. Questo tema è stato sviluppato dagli studenti del biennio di specializzazione della Scuola di Nuove Tecnologie dell’Arte, nel corso del’A.A. 2014/15, in concomitanza con i preparativi per EXPO 2015 a cui la città di Milano ha dedicato sforzi organizzativi considerevoli.
Al tema della fama gli studenti hanno prestato un’attenzione del tutto particolare, innanzitutto come studiosi di nuove tecnologie, e poi come giovani “nativi digitali” particolarmente attenti, da un punto di vista critico, a fenomeni del tutto nuovi legati ai social network e a quella che viene comunemente definita “web-attenzione” in cui aspetti specifici e diffusi del concetto di “fama” inducono a comportamenti nei quali l’apparire diventa sempre più importante dell’essere.
Il fenomeno non è del tutto nuovo e già da qualche anno anche la letteratura psichiatrica si occupa di questi argomenti. Termini quali I.A.D. più in generale (Internet Addiction Disorder – dipendenza dalla rete, disturbo da discontrollo degli impulsi) e più in particolare S.N.D. (Sindrome Narcisistica Digitale) sono tutt’ora oggetto di ricerca e di studio. Secondo questi studi, la rete partecipativa (definita web 2.0) incoraggerebbe lo sviluppo della cultura narcisistica, arrivando a fenomeni parossistici sconcertanti come la web-tv personale online 24 ore su 24 o le cosiddette “impronte digitali” (digital footprints) lasciate in giro sui vari social per essere ri-conosciuti.
Esiste anche un quoziente numerico (chiamato QDOS) che calcola il numero di contatti per avere approvazioni, riconoscimenti o conferme e funziona quasi come un antidepressivo tecnologico o come vetrina per la propria vanità o per la ricerca di un non bene identificato successo: una sorta di digito ergo sum, come è stato definito.
L’approccio al tema della fama è stato dunque motivo di un’analisi minuziosa ed ogni studente ha intravvisto la possibilità di coinvolgere una platea molto più vasta nelle sue riflessioni attraverso i nuovi linguaggi dell’arte. Quasi un’autocritica da parte di nuove tecnologie che pur se è vero che hanno portato metodi innovativi di comunicazione e diffusione della cultura, d’altro canto possono portare ad una sorta di squilibrata “bulimia” tecnologica da cui è difficile uscire e che può presentare anche aspetti imprevisti molto pericolosi come ha ben evidenziato il film Disconnect di Henry Alex Rubin.
Queste considerazioni visive vogliono essere una sorta di segnale di pericolo, non spaventoso ma quasi ironico: un invito a valutare sempre e comunque la sostanziale differenza fra real-life e virtual-life e quindi evitare di confonderle o di creare equivoci e squilibrati mixaggi, come sostiene il sociologo e filosofo Zygmunt Bauman in un recente articolo:
[…]Va detto che il sopraccitato inventario dei vizi e delle virtù effettive e potenziali della suddivisione del Lebenswelt (“mondo della vita”) in un universo online e offline è tutt’altro che completo. […] Nonostante tutto quello che al momento si possa sostenere, una delle conseguenze meno allettanti riguarda il prezzo da pagare per i risultati più grandi ottenuti dall’universo online in termini di comodità, facilità, assenza di rischio e incoraggiando una tendenza a trapiantare le concezioni del mondo fatte a misura dell’ambiente online nel suo corrispettivo offline, a cui possono essere applicati a costo di un grande danno etico e sociale.
I temi
L’apparire e l’immagine di sé sono stati da subito oggetto di particolare attenzione ed analisi ma anche recepiti come centro di un neo narcisismo, ‘male’ psicologico dilagante, secondo gli esperti, che ha effetti negativi sulle relazioni personali ma anche come problema sociale, perché “i comportamenti narcisistici degli adulti – avvertono gli specialisti – minano le relazioni fra le persone, danneggiando l’efficienza di aziende e istituzioni”.
E “Lo schermo dello smartphone è la versione moderna del lago di Narciso, una superficie piatta, senza spessore, in cui ci si specchia. Con il selfie l’immagine viene rinviata su diversi canali e poi torna indietro: resta una continua ricerca della propria immagine”, spiega Paolo Chiari, segretario scientifico del Centro milanese di psicanalisi. Il narcisismo, continua l’esperto, “è la ricerca di un sé grandioso che ha bisogno di essere visto e ammirato, ma che nasconde carenze”.
Quali carenze? Soprattutto culturali, esistenziali, sociali, critiche: ci sono disastri personali, legati, all’incapacità di costruire relazioni, e sociali perché al narcisista manca la capacità di cooperare, di stare e lavorare insieme. Ha bisogno solo di primeggiare.
Attraverso l’uso dell’immagine, aggiunge Chiari, “testimonia un esserci che non è realmente sentito: insomma una conferma di esistere che viene rimbalzata attraverso dei mezzi, apparentemente di ‘comunicazione’, ma che in realtà restano in superficie e non permettono di creare vere relazioni”.
Il titolo dell’intervento espositivo prende il via dal termine “fame” che a seconda lo si legga in italiano o in inglese, acquista significati diversi ma che accusano qualche complementarietà anche nell’arte: fame/fama.
A tale riguardo Eugenio Barba, uomo di teatro, disse:
“Il sogno di godere della celebrità e il bisogno di sfuggire la miseria: la vita del teatro per secoli si è mossa fra queste due sponde trovandovi energia e consistenza.
Fama? Fame?
Le due sponde non sono un bivio. Opposte, ma sostanzialmente identiche, sono l’una complementare all’altra.”
Ed Andy Warhol, il famoso artista della Pop Art, negli anni ’60 ebbe a dire:
“Nel futuro ognuno sarà famoso al mondo per quindici minuti!”. Quasi una profezia.
I significati
L’ambiguità del termine italiano/inglese di “fame” (fama) è interrotta nel titolo da una [r] che la trasforma in “frame” il cui senso letterale è “cornice”, “struttura”, ma come sempre capita nella lingua inglese, a seconda si riferisca ad ambiti e campi diversi, assume altri significati: nel cinema “fotogramma” o immagine fissa, in informatica “pacchetto di bit che costituisce un’unità strutturata di informazioni”, nella semantica “codifica un oggetto, un evento o una situazione identificando le unità lessicali che lo denotano e i ruoli semantici che vi partecipano” ecc.
Fame-frame è apparso da subito un collegamento fra fama ed immagine-frammento video, uno dei settori di applicazione degli studenti della Scuola di Nuove Tecnologie dell’Arte.
Frame è quindi la cornice in cui siamo inseriti, la cornice entro la quale veniamo visti, la struttura che regge il fatto di esistere digitalmente: gli attimi che si succedono altro non sembrano che frame delle nostre vite.
Sequenza dopo sequenza “the life goes on”… e senza una cornice ci si sente nessuno: somma paura contemporanea dell’anonimato, un anonimato che non lascia tracce. Che cosa di più adatto e di più utile se non l’informatica, la rete, il digitale per lasciar traccia?
Ma frame, nell’accezione informatica, altra materia alla base degli studi di Nuove Tecnologie dell’Arte, ha il significato di “pacchetto di bit che costituisce un’unità strutturata di informazioni” e cioè la traduzione di piccoli concetti che si fanno comunicazione, mostra, esposizione, come in questo caso.
Le riflessioni
Il gruppo di studenti che ha indagato su questi temi, lo ha fatto in maniera critica soprattutto nei riguardi degli strumenti, dei device dei social in rete, della tv commerciale, mondi che si stanno contaminando in una sorta di forsennata corsa verso l’omologazione, la convenzione culturale e sociale, l’appiattimento e relativo consumo seriale. Non risparmiando neppure numerosi aspetti dell’Arte “ufficiale”. La discussione è stata serrata e le individualità hanno ben presto lasciato il posto ad una convergenza sostanziale, soprattutto sui contenuti. Interessante è stato soprattutto il dipanarsi di sfaccettature e sfumature che inizialmente sembravano inconciliabili. Si è verificata una sorta di metamorfosi che il filosofo Mario Costa, studioso dell’impatto delle nuove tecnologie sull’arte e sull’estetica, ha così ben definito in una recente intervista:
Più che “artisti tecnologici” io preferisco chiamarli “ricercatori estetici”. […] non sono affatto convinto che la funzione dell'”artista”, di quello che una volta era l'”artista”, oggi sia venuta meno, sia inutile e debba essere eliminata. Sostengo, viceversa, che il ruolo dell’artista sia profondamente mutato. Gli artisti tecnologici o i ricercatori estetici devono oggi rinunciare – e lo fanno già – ad alcune componenti fondamentali di quello che era l’artista della tradizione. Loro lavorano prevalentemente sul piano del concetto […] Il concetto è condivisibile. Questo significa che la produzione può essere, deve essere, e in molti casi lo è già, una produzione concertata, collettiva. Significa che la proprietà esclusiva dell’opera è una nozione arcaica, così come lo stile che una volta caratterizzava l’artista […] è l’artista che tende assolutamente alla proprietà esclusiva dell’opera. Molti artisti tecnologici hanno già superato, nei fatti, tutto questo.[…] Oggi, a mio avviso, l’estetica deve molto di più tematizzare, molto di più problematizzare la situazione che le nuove cose, le nuove tecniche, le nuove energie ci hanno costretto a considerare. Una vera e propria riflessione estetologica su quello che sta avvenendo oggi […]
Siamo continuamente bombardati da stimoli, opinioni, notizie, report, indagini; bocche, occhi che parlano, si sovrappongono in un rumore di fondo, un noise che disorienta, fisicamente, psicologicamente. E quando cerchiamo di isolare qualche segnale, rendendolo vagamente più distinto e comprensibile, sovente la sensibilità dell’artista viene pervasa da una sorta di delusione di contenuti, di vacuità del messaggio, dell’inutilità della comunicazione. La fame di bellezza, la fame di cultura, la fame di sapere viene disattesa, in uno spreco comunicativo che avrebbe altro valore sociale.
Non resta che l’isolamento: il costruirsi uno spazio, una sorta di “tana”, quello che è stato definito uno pseudo-ambiente parzializzante ed esclusivo. Un foro stenopeico attraverso il quale analizzare particella per particella, non considerando più un “tutto”.
Logica conseguenza è rivolgersi all’io, un’attenzione che in teoria avrebbe un’importanza fondamentale sfrondandola dai pericolosi gorghi dell’egoismo, dell’egocentrismo e del narcisismo. Il continuo richiamo, però, della giungla sociale, al suo corteggiamento consumistico, alle sue promesse, alle sindromi di celebrità e successo, porta definitivamente verso l’alterazione della propria immagine: si scopre, a torto o a ragione, di essere pieni di difetti, fisici, psicologici, caratteriali, esistenziali, che poco hanno a che fare con la vera omologazione e che pertanto sfocia nella paura di non essere nessuno.
Nasce il bisogno di “ritoccare” la propria immagine, di renderla “fruibile”, diffondibile, fino ad alterarne i dati. Quello che era il vanto di Odisseo cade miseramente dentro una vera e propria fobia… Complice quel dispositivo piatto continuamente illuminato che è lo schermo: solo oltrepassandolo saremo qualcuno! Uno Stige al contrario…
Esiste un Prima e un Dopo: prima di attraversare quel monitor riusciamo ad avere quella che viene definita spontaneità, probabile vera essenza personale; ma attraversato quel velo di Maya (Der Schleier der Maya, dunque l’invenzione di Arthur Schopenhauer, coniata per la prima volta ne Il mondo come volontà e rappresentazione) non siamo più noi, né nella postura, né nell’atteggiamento e quindi non ci assomigliamo più, siamo altro, quell’altro che cerchiamo di essere e che ritocchiamo in continuazione. Lo si può notare in quel fenomeno ormai abusato quale il selfie: invasione di autoritratti dalla spontaneità eccessiva, smisurata, sbilanciata, che strizza l’occhio al compiacimento goliardico nel ridicolo della sua inutilità.
Ovvio che la proliferazione di qualsiasi fenomeno venga assorbita da un “mercato”, sempre più attento alle metamorfosi, pur se malate, della società contemporanea..
« In tutte le civiltà umane esiste l’idea di mercato come luogo deputato all’incontro tra persone con bisogni diversi che desiderano scambiare beni e servizi. La caratteristica dei mercati di oggi è che lo scambio è guidato non dai bisogni, ma dal profitto. È pura ideologia pensare che la società possa funzionare al meglio lasciando i mercati liberi di perseguire il profitto, e che i mercati possano operare efficacemente soltanto limitando le interferenze al minimo. Le regole che governano il funzionamento dei mercati sono stabilite dai potenti; il nostro dramma è aver permesso che questo accadesse »
(Raj Patel, Il valore delle cose e le illusioni del capitalismo, p.27)
Il mercato dunque s’impadronisce di questi fenomeni e li razionalizza in un “allevamento”, dentro metaforiche stie da cui è quasi impossibile uscire e che costringono a produrre in continuazione.
Ma è proprio la rete che ci apre gli occhi: come riferisce il sito Wired, lo studente di architettura André Ford ha elaborato un’idea del professor Thompson, suggerendo la “soluzione pollo senza testa.”
Questa implica la rimozione della corteccia cerebrale dell’animale per attenuare le sue percezioni sensoriali, in modo che possa essere allevato nelle condizioni di affollamento senza tanta sofferenza. Il tronco encefalico rimarrebbe intatto, in modo da permettergli la crescita.
Il ragionamento alla base della proposta del signor Ford è stato duplice: soddisfare la crescente domanda di carne e migliorare il benessere dei polli togliendo ad essi la sensibilità agli orrori della loro esistenza.
Una produzione de-mente… Ma è altrettanto ovvio che la rete, se da un lato permette l’informazione e la diffusione di concetti, notizie, idee, dall’altro può essere bugiarda: è un altro aspetto delle facili credenze e delle facili opinioni che ci si possono fare in rete. “Siamo caduti nella rete” è una metafora di una altrettanto probabile realtà.
Qualsiasi bugia, scientifica o meno, viene assorbita, digerita proprio come il mangime per i polli nella stia. Pertanto molte persone, in assoluta bona fede e possedendo nella maggior parte dei casi anche un livello di cultura medio alta, diventano strumenti inconsapevoli di un meccanismo perverso, che in molti casi ritornerà anche a distanza di anni, perché essendo la Rete bulimica, la notizia verrà dimenticata in un giorno, ma ritornerà.
Solo il vecchio metodo della citazione della fonte e della sua competenza potrà fermare questa bulimia? Oppure il rinnovamento di un metodo critico nell’intero sistema educativo?
Meccanismo perverso bulimico e voyeristico, dunque, che ci porta a filtrare la realtà, tanto da confonderla, nella sua apparenza spesso così fedele, con l’esistenza stessa.. Si è quello che si vede, ma non è proprio così… Passiamo indifferentemente fra una realtà suggerita ed una vissuta in modo eccessivamente disinvolto, sempre più spesso confondendole.
L’arte e la sua percezione sono vittime quasi dello stesso processo: le grandi firme fagocitano ogni tensione creativa sul cosiddetto “mercato”. Il divismo in architettura e arte ha letteralmente inebriato e polarizzato tutte le attenzioni dei media: il nome più che la creazione e le sue motivazioni attraggono il cosiddetto “grande pubblico” ormai degente, ma la realtà dello studio quotidiano di migliaia di studenti che si apprestano a diventare degli operatori nei settori artistici è fatta di solo sacrificio, di abnegazione, di impegno, nell’ombra degli studi, degli atelier, delle aule, di biblioteche, senza nessun tipo di riconoscimento e valorizzazione sociale o di approvazione mediatica e sempre più spesso con un futuro incerto o nebuloso. Ma si dimentica che molti di loro saranno i protagonisti della futura cultura: anonime creature, anonime figure che produrranno bellezza quand’anche non la producano già. Esiste una dissociazione palese, in questo caso, fra arte-fatto e art-ista, risultato di fenomenologia pubblica dicotomica.