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03/05/2010

GENIO & CREATIVITA’

Filed under: Scritti — Daniele @ 9:54 am

Di Francesco Bottaccioli – Scuola di medicina integrata

La favola vuole che Newton scopra la gravità improvvisamente, dopo la caduta di una mela sulla testa e che Darwin scopra l’evoluzione delle specie dopo aver osservato alcuni uccelli alle isole Galapagos durante una giovanile e avventurosa navigazione intorno al mondo. L’innovazione quindi, anche la grande innovazione, quella che segna il passaggio delle epoche della storia umana, sarebbe frutto del caso o di un’illuminazione improvvisa che accade a persone singolari. L’immagine è quella della lampadina che s’illumina nella testa del genio, il quale ne è quasi travolto, come se fosse il recipiente di un’azione altrui.
Chi ha visto il film “A beautiful mind”, che narra la storia del premio Nobel per la matematica John Nash, affetto da una seria forma di psicosi, può essersi rafforzato in questa convinzione. Il povero John era tramortito da questo effluvio di formule e di idee matematiche che si impadronivano di lui. Idee che seguivano, a detta sua, le stesse strade che seguivano gli extraterrestri per comunicare con lui, anche se Nash, ovviamente, ha preso il Nobel non per la sua capacità di comunicare con i marziani, ma per le sue innovative idee matematiche.
La ricerca scientifica più recente sulla creatività umana ridimensiona molto questa immagine, anche se, per altri versi, riconferma il legame tra creatività e divergenza, in un contesto meno individualistico, che però non espelle la pazzia, considerandola il prodotto indesiderato di un salto evolutivo del cervello umano.
R. Keith Sawyer, psicologo della Washington University, che ha appena pubblicato un libro sull’argomento “Explaining creativity: the science of human innovation”, Oxford 2006 (Spiegare la creatività: la scienza dell’innovazione umana), insiste nella “normalizzazione” o meglio nella naturalizzazione della creatività. «Non è la magica esplosione di un’idea», dice in un’intervista a Time, «né un flash abbagliante, ma una catena di reazioni che connette molte piccole scintille sparse».
Qui troviamo un primo elemento forte, assodato dalla ricerca neurobiologica: creatività come capacità di connettere idee, piani di ragionamento e quindi anche circuiti cerebrali diversi tra loro.
Una delle prime definizioni moderne di creatività è stata avanzata nel 1890 dal grande William James che nei suoi “Principi di psicologia” la descrive, per l’appunto, come «una transizione da un’idea a un’altra, una inedita combinazione di elementi, una acuta capacità associativa e analogica». In sostanza, un sovvertimento del solito “tran tran” mentale, un uscire fuori dalle regole del pensiero “normale”, un connettere ciò che di solito è separato, una produzione di nuovi punti di vista per associazione analogica. James battezzò tutto ciò “pensiero divergente”.
Ma come si realizza il pensiero divergente? Che strade psichiche e nervose segue? È possibile coltivare la creatività? E infine: che relazione c’è tra genio e pazzia? Il creativo è quindi un disadattato oppure la creatività è una risorsa adattativa? Domande a cui la scienza comincia a dare qualche risposta.

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NANCY C. ANDREASEN, una delle più brillanti neuroscienziate americane contemporanee, all’età di cinque anni, venne definita un genio in virtù del suo elevato quoziente intellettivo (QI). La stessa scienziata ci spiega adesso, in un suo libro dedicato proprio alla genialità (The creating brain: the neuroscience of genius, New York, dicembre 2005), che per essere creativi non necessariamente bisogna essere intelligentissimi. O, meglio, l’intelligenza è assolutamente necessaria, ma non è sufficiente. Ci sono persone con elevato Ql che sono scarsamente creative. E questo perché si può decidere di investire la propria intelligenza in un campo sicuro, che non richiede, anzi aborrisce il pensiero divergente. I famosi primi della classe sono secchioni non tanto perché poco intelligenti e molto studiosi, ma perché aderenti alle regole e al pensiero conformista che, del resto, la scuola, contravvenendo alla sua missione, alimenta e richiede. La creatività quindi è legata, dice Andreasen, al rischio, alla capacità di mettersi in gioco. E non sempre va tutto liscio. Senza scomodare i processi, le persecuzioni reazionarie nel corso dei secoli, illuminante al riguardo è la ricerca che la scienziata americana ha fatto sul rapporto tra professioni creativi e psicopatologia. Sembrerebbe che più dell’80% degli scrittori professionisti siano, in un modo o nell’altro, affetti da disturbi dell’umore, con i poeti in cima alla lista, sofferenti in particolare di disturbo maniaco depressivo (cosiddetto bipolare). Non mancano i casi celebri. Notissimi I problemi psichici seri di Vincent va Gogh e di Friedrich Nietzsche, meno noto il fatto che Newton soffrì di episodi psicotici, che uno dei grandi logici del Novecento Bertrand Russell avesse uno zio e un figlio schizofrenici, che Albert Einstein avesse un figlio schizofrenico e che l’icona della letteratura James Joyce avesse una sorella morta in manicomio. Andreasen respinge ‘Idea che ci possa essere un gene della schizofrenia, che invece è un disordine poligenico che si configura come un disturbo delle connessioni dei circuiti cerebrali. I suoi studi e quelli di altri mettono in luce che alcuni deficit specifici non ostacolano il genio creativo, anzi possono sollecitarlo per un meccanismo d’adattamento. Pablo Picasso andava male a scuola perché aveva un disturbo del linguaggio, Albert Einstein fino a tre anni non parlava. Ambedue, in forme diverse, come per compensazione, hanno notevolmente sviluppato i circuiti immaginativi visivi. Il pittore ha poi tradotto la sua creatività in Guernica, che è il suo discorso contro la guerra, il fisico nella celebre formula di equivalenza della massa e dell’energia, che è il suo discorso sul mondo. Einstein soleva dire che pensava per immagini, ma è noto che si esprimesse con formule. Picasso aveva studiato in modo approfondito l’arte figurativa prima di esprimersi con le sue fantastiche figure e Einstein la matematica prima di esprimersi con la sua teoria della relatività. La loro creatività, come possibile adattamento a un deficit iniziale, aveva quindi potuto esprimersi sulla base di forti competenze specifiche sviluppato in un lungo tirocinio. Senza competenze non c’è creatività, ma le competenze da sole non bastano. Occorre metterle in gioco, rischiando.

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SECONDO uno dei massimi studiosi della creatività, Mark A. Runco della California University, autore di una recente ampia rassegna su “Annua! Reviews of Psychology”, la creatività non va vista solo come innovazione artistica, scientifica, tecnologica, ma come una qualità umana fondamentale per la vita di tutti giorni. E in effetti c’è bisogno di molta creatività a sopravvivere con un lavoro precario a 300 euro al mese, oppure ad allevare figli lavorando in un contesto che penalizza le assenze per malattia dei bambini. In questo senso, (I principale ingrediente della creatività, scrive Runco, è la flessibilità, è la capacità di escogitare soluzioni, di vedere la stessa cosa da un altro, più favorevole, punto di vista, di confrontarsi con i cambiamenti della vita di tutti giorni. Ma la grande creatività, quella artistica e scientifica, si basa sulla flessibilità. Flessibilità, nella scienza, vuoi dire praticare un pensiero non autarchico, ma che cerca contaminazioni.
I grandi avanzamenti scientifici sono di solito il risultato della contaminazione tra scienze, per statuto e pratica, separate. Non sarebbe nata la genetica se un abate, fisico, Gregory Mende), non fosse stato anche un botanico. Non si sarebbe compresa l’evoluzione della vita sulla Terra se un giovane naturalista autodidatta, Charles Darwin, non avesse combinato l’osservazione della flora e della fauna del nuovo mondo con lo studio della geologia e del pensiero politico popolazionale di Malthus, integrando il tutto con l’esperienza degli allevatori di cani di razza. E probabilmente non sarebbe nata la fisica moderna se il quarantenne Isaac Newton non si fosse ritirato a studiare alchimia. Il padre della meccanica razionale, l’uomo che ha aperto l’era della grande scienza moderna, tra il 1670 e il 1695, si dedicò a intensi studi ed esperimenti alchemici, la scienza magica per eccellenza. In questo contesto, maturò la scrittura dei “Principia mathematica”, opera che impresse una svolta irreversibile alla scienza. Per questo, la storica americana Betty Dobbs, alcuni anni fa, definì Newton un “Giano bifronte”: fisico e alchimista. E, forse, proprio per questo, creativo.

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IL 18 APRILE di 51 anni fa moriva Albert Einstein. Per volontà testamentaria, il suo cervello venne salvato dalla cremazione e asportato da Thomas Harvey, patologo del Princeton Hospital, New Jersey. Venne fotografato, sezionato e analizzato in tutti i dettagli. Analisi che ancor oggi è fonte di dibattito in quanto si spera di comprendere alcune caratteristiche strutturali di uno dei cervelli più creativi mai conosciuti. Come abbiamo già detto, il piccolo Albert ha parlato tardi, dando una comprensibile preoccupazione ai suoi genitori. Dall’esame del suo cervello, effettivamente sembra che ci siano delle particolarità. Tra le altre, un notevole maggior sviluppo di un’area posteriore dell’emisfero sinistro, l’area 39 (parietale inferiore) e 37 (temporale posteriore). Queste aree fanno parte della cosiddetta area di Wernicke che integra attività come la comprensione delle parole, dei toni, ma anche le abilità spaziali e matematiche. Al notevole sviluppo di questa parte del cervello di Einstein non corrisponde un analogo sviluppo della cosiddetta area di Broca che è quella che consente l’esecuzione del linguaggio. «Quindi, il piccolo Albert ha avuto probabilmente qualche problema di sviluppo dell’emisfero sinistro», scrivono Kenneth H. Heilmann e Stephen E. Nadeau dell’Università della Florida in articolo dedicato ai meccanismi nervosi della creatività, «notevolmente compensati dallo sviluppo dell’area posteriore e, soprattutto dalla crescita delle possibilità di integrazione di circuiti nervosi che si riferiscono a diverse abilità: ricettive, spaziali, matematiche e quindi immaginative». Del resto, l’influenza della capacità visiva e immaginativa sulla elaborazione matematica è confermata dalle affermazioni di Richard Feynman, premio Nobel per la Fisica, che dice di iniziare a pensare in termini di astratta rappresentazione visiva che poi traduce in termini matematici. Studi su persone normali, sottoposte a compiti creativi, mostrano all’elettroencefalogramma un incremento della coerenza delle oscillazioni elettriche tra aree nervose molto lontane tra loro a dimostrazione che la forte integrazione di circuiti diversi è la base biologica che sostiene il tipico comportamento creativo: l’allargamento degli orizzonti, il reclutamento di idee non immediatamente collegate, la rottura degli schemi. Infine, per consentire la produzione del pensiero divergente è necessario che il sistema che produce noradrenalina sia molto mobile.

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È CAPITATO a tutti di trovare la soluzione a un problema dopo una bella dormita, in una fase di rilassamento, oppure dopo alcune ore o giorni, quando non ci si pensa più. Alcuni risolvono questioni, anche non piccole, in sogno, come si racconta sia successo a August Kekulé, eminente chimico tedesco, che nel 1865 mentre ragionava, senza risultati, sulla struttura del benzene, si addormentò e sognò un serpente che si mordeva la coda. Svegliatosi, immaginò che la struttura del benzene fosse ad anello e così ancora la concepiamo! Sapersi concentrare e quindi attivarsi su un problema è assolutamente necessario se si vuol provare a risolverlo, ma un eccesso di attivazione e quindi di stress può essere controproducente. Ricerche recentissime di Gary Aston-Jones, neuropsichiatra dell’Università della Pennsylvania, sul sistema che governa l’attivazione cerebrale, basato sui neuroni che producono noradrenalina, collocati in un’area del tronco dell’encefalo chiamata Locus coeruleus, dimostrano che il meccanismo della creatività comporta una continua bilancia tra attività fasica e attività tonica. Nella fasica si ha un picco nella produzione di noradrenalina che consente al cervello di selezionare il compito da affrontare e di concentrarsi con determinazione. Nella tonica, il livello di noradrenalina si abbassa e ciò consente una notevole capacità di reclutamento di idee e una maggiore capacità esplorativa del nuovo. Si tratta in sostanza di sapersi concentrare senza agitarsi e, al tempo stesso, di distogliere l’attenzione dal tema, rilassandosi in profondità, senza perdere la capacità di tornare al tema, ma possibilmente con in testa nuovi elementi sollecitati ad emergere proprio dalla fase di rilassamento. Le persone che usano regolarmente tecniche antistress e meditative, che sono basate proprio su questa capacità di concentrazione e rilassamento, acquisiscono un habitus mentale che consente loro una maggiore produttività intellettuale e, possibilmente, una maggiore creatività.

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IL SOGNO e l’usignolo sono i due “modelli” da cui si spera di avere la soluzione del mistero della creatività. L’usignolo, col suo canto sempre diverso, è un ottimo modello perché ha un cervello molto più piccolo di quello umano. Più semplice quindi, scovare tra le strutture nervose, quella da cui sgorga la melodia sempre diversa e ricostruirne poi la struttura e il funzionamento.
Ma anche dalle ricerche sui sogni possono uscire scoperte. Durante questa fase nervosa, il cervello umano riduce in modo drastico la sua attività, “spegnendo” numerose strutture e riducendo di molto quindi le aeree dove indagare. In particolare, durante il sonno, si staccano sia le connessioni con le vie che portano le sensazioni e le strutture centrali che le elaborano e sia le connessioni con le strutture che elaborano e comandano le reazioni motorie. Si attiva, invece, solo quella parte di cervello che produce relazioni nuove tra le informazioni depositate. Che è l’essenza della creatività. Nonostante questi due modelli semplifichino molto il lavoro di ricerca, la creatività rimane ancora un mistero.

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