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21/12/2018

phphoto – mobile photo

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03/03/2017

mesmurs

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24/02/2017

autopoiesi

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18/01/2017

genio & creatività

Filed under: Scritti — Daniele @ 5:13 pm

Si comincia a capire come si genera un’idea nuova nella mente umana. Ora la sfida è scoprire in quali circuiti nervosi nasce.

GENIO & CREATIVITA’

Di Francesco Bottaccioli – Scuola di medicina integrata

La favola vuole che Newton scopra la gravità improvvisamente, dopo la caduta di una mela sulla testa e che Darwin scopra l’evoluzione delle specie dopo aver osservato alcuni uccelli alle isole Galapagos durante una giovanile e avventurosa navigazione intorno al mondo. L’innovazione quindi, anche la grande innovazione, quella che segna il passaggio delle epoche della storia umana, sarebbe frutto del caso o di un’illuminazione improvvisa che accade a persone singolari. L’immagine è quella della lampadina che s’illumina nella testa del genio, il quale ne è quasi travolto, come se fosse il recipiente di un’azione altrui.

Chi ha visto il film “A beautiful mind”, che narra la storia del premio Nobel per la matematica John Nash, affetto da una seria forma di psicosi, può essersi rafforzato in questa convinzione. Il povero John era tramortito da questo effluvio di formule e di idee matematiche che si impadronivano di lui. Idee che seguivano, a detta sua, le stesse strade che seguivano gli extraterrestri per comunicare con lui, anche se Nash, ovviamente, ha preso il Nobel non per la sua capacità di comunicare con i marziani, ma per le sue innovative idee matematiche.

La ricerca scientifica più recente sulla creatività umana ridimensiona molto questa immagine, anche se, per altri versi, riconferma il legame tra creatività e divergenza, in un contesto meno individualistico, che però non espelle la pazzia, considerandola il prodotto indesiderato di un salto evolutivo del cervello umano.

R. Keith Sawyer, psicologo della Washington University, che ha appena pubblicato un libro sull’argomento “Explaining creativity: the science of human innovation“, Oxford 2006 (Spiegare la creatività: la scienza dell’innovazione umana), insiste nella “normalizzazione” o meglio nella naturalizzazione della creatività. «Non è la magica esplosione di un’idea», dice in un’intervista a Time, «né un flash abbagliante, ma una catena di reazioni che connette molte piccole scintille sparse».

Qui troviamo un primo elemento forte, assodato dalla ricerca neurobiologica: creatività come capacità di connettere idee, piani di ragionamento e quindi anche circuiti cerebrali diversi tra loro.

Una delle prime definizioni moderne di creatività è stata avanzata nel 1890 dal grande William James che nei suoi “Principi di psicologia” la descrive, per l’appunto, come «una transizione da un’idea a un’altra, una inedita combinazione di elementi, una acuta capacità associativa e analogica». In sostanza, un sovvertimento del solito “tran tran” mentale, un uscire fuori dalle regole del pensiero “normale”, un connettere ciò che di solito è separato, una produzione di nuovi punti di vista per associazione analogica. James battezzò tutto ciò “pensiero divergente”.

Ma come si realizza il pensiero divergente? Che strade psichiche e nervose segue? È possibile coltivare la creatività? E infine: che relazione c’è tra genio e pazzia? Il creativo è quindi un disadattato oppure la creatività è una risorsa adattativa? Domande a cui la scienza comincia a dare qualche risposta.

* * *

NANCY C. ANDREASEN, una delle più brillanti neuroscienziate americane contemporanee, all’età di cinque anni, venne definita un genio in virtù del suo elevato quoziente intellettivo (QI). La stessa scienziata ci spiega adesso, in un suo libro dedicato proprio alla genialità (The creating brain: the neuroscience of genius, New York, dicembre 2005), che per essere creativi non necessariamente bisogna essere intelligentissimi. O, meglio, l’intelligenza è assolutamente necessaria, ma non è sufficiente. Ci sono persone con elevato Ql che sono scarsamente creative. E questo perché si può decidere di investire la propria intelligenza in un campo sicuro, che non richiede, anzi aborrisce il pensiero divergente. I famosi primi della classe sono secchioni non tanto perché poco intelligenti e molto studiosi, ma perché aderenti alle regole e al pensiero conformista che, del resto, la scuola, contravvenendo alla sua missione, alimenta e richiede. La creatività quindi è legata, dice Andreasen, al rischio, alla capacità di mettersi in gioco. E non sempre va tutto liscio. Senza scomodare i processi, le persecuzioni reazionarie nel corso dei secoli, illuminante al riguardo è la ricerca che la scienziata americana ha fatto sul rapporto tra professioni creativi e psicopatologia. Sembrerebbe che più dell’80% degli scrittori professionisti siano, in un modo o nell’altro, affetti da disturbi dell’umore, con i poeti in cima alla lista, sofferenti in particolare di disturbo maniaco depressivo (cosiddetto bipolare). Non mancano i casi celebri. Notissimi I problemi psichici seri di Vincent va Gogh e di Friedrich Nietzsche, meno noto il fatto che Newton soffrì di episodi psicotici, che uno dei grandi logici del Novecento Bertrand Russell avesse uno zio e un figlio schizofrenici, che Albert Einstein avesse un figlio schizofrenico e che l’icona della letteratura James Joyce avesse una sorella morta in manicomio. Andreasen respinge ‘Idea che ci possa essere un gene della schizofrenia, che invece è un disordine poligenico che si configura come un disturbo delle connessioni dei circuiti cerebrali. I suoi studi e quelli di altri mettono in luce che alcuni deficit specifici non ostacolano il genio creativo, anzi possono sollecitarlo per un meccanismo d’adattamento. Pablo Picasso andava male a scuola perché aveva un disturbo del linguaggio, Albert Einstein fino a tre anni non parlava. Ambedue, in forme diverse, come per compensazione, hanno notevolmente sviluppato i circuiti immaginativi visivi. Il pittore ha poi tradotto la sua creatività in Guernica, che è il suo discorso contro la guerra, il fisico nella celebre formula di equivalenza della massa e dell’energia, che è il suo discorso sul mondo. Einstein soleva dire che pensava per immagini, ma è noto che si esprimesse con formule. Picasso aveva studiato in modo approfondito l’arte figurativa prima di esprimersi con le sue fantastiche figure e Einstein la matematica prima di esprimersi con la sua teoria della relatività. La loro creatività, come possibile adattamento a un deficit iniziale, aveva quindi potuto esprimersi sulla base di forti competenze specifiche sviluppato in un lungo tirocinio. Senza competenze non c’è creatività, ma le competenze da sole non bastano. Occorre metterle in gioco, rischiando.

* * *

SECONDO uno dei massimi studiosi della creatività, Mark A. Runco della California University, autore di una recente ampia rassegna su “Annua! Reviews of Psychology”, la creatività non va vista solo come innovazione artistica, scientifica, tecnologica, ma come una qualità umana fondamentale per la vita di tutti giorni. E in effetti c’è bisogno di molta creatività a sopravvivere con un lavoro precario a 300 euro al mese, oppure ad allevare figli lavorando in un contesto che penalizza le assenze per malattia dei bambini. In questo senso, (I principale ingrediente della creatività, scrive Runco, è la flessibilità, è la capacità di escogitare soluzioni, di vedere la stessa cosa da un altro, più favorevole, punto di vista, di confrontarsi con i cambiamenti della vita di tutti giorni. Ma la grande creatività, quella artistica e scientifica, si basa sulla flessibilità. Flessibilità, nella scienza, vuoi dire praticare un pensiero non autarchico, ma che cerca contaminazioni.

I grandi avanzamenti scientifici sono di solito il risultato della contaminazione tra scienze, per statuto e pratica, separate. Non sarebbe nata la genetica se un abate, fisico, Gregory Mende), non fosse stato anche un botanico. Non si sarebbe compresa l’evoluzione della vita sulla Terra se un giovane naturalista autodidatta, Charles Darwin, non avesse combinato l’osservazione della flora e della fauna del nuovo mondo con lo studio della geologia e del pensiero politico popolazionale di Malthus, integrando il tutto con l’esperienza degli allevatori di cani di razza. E probabilmente non sarebbe nata la fisica moderna se il quarantenne Isaac Newton non si fosse ritirato a studiare alchimia. Il padre della meccanica razionale, l’uomo che ha aperto l’era della grande scienza moderna, tra il 1670 e il 1695, si dedicò a intensi studi ed esperimenti alchemici, la scienza magica per eccellenza. In questo contesto, maturò la scrittura dei “Principia mathematica”, opera che impresse una svolta irreversibile alla scienza. Per questo, la storica americana Betty Dobbs, alcuni anni fa, definì Newton un “Giano bifronte”: fisico e alchimista. E, forse, proprio per questo, creativo.

* * *

IL 18 APRILE di 51 anni fa moriva Albert Einstein. Per volontà testamentaria, il suo cervello venne salvato dalla cremazione e asportato da Thomas Harvey, patologo del Princeton Hospital, New Jersey. Venne fotografato, sezionato e analizzato in tutti i dettagli. Analisi che ancor oggi è fonte di dibattito in quanto si spera di comprendere alcune caratteristiche strutturali di uno dei cervelli più creativi mai conosciuti. Come abbiamo già detto, il piccolo Albert ha parlato tardi, dando una comprensibile preoccupazione ai suoi genitori. Dall’esame del suo cervello, effettivamente sembra che ci siano delle particolarità. Tra le altre, un notevole maggior sviluppo di un’area posteriore dell’emisfero sinistro, l’area 39 (parietale inferiore) e 37 (temporale posteriore). Queste aree fanno parte della cosiddetta area di Wernicke che integra attività come la comprensione delle parole, dei toni, ma anche le abilità spaziali e matematiche. Al notevole sviluppo di questa parte del cervello di Einstein non corrisponde un analogo sviluppo della cosiddetta area di Broca che è quella che consente l’esecuzione del linguaggio. «Quindi, il piccolo Albert ha avuto probabilmente qualche problema di sviluppo dell’emisfero sinistro», scrivono Kenneth H. Heilmann e Stephen E. Nadeau dell’Università della Florida in articolo dedicato ai meccanismi nervosi della creatività, «notevolmente compensati dallo sviluppo dell’area posteriore e, soprattutto dalla crescita delle possibilità di integrazione di circuiti nervosi che si riferiscono a diverse abilità: ricettive, spaziali, matematiche e quindi immaginative». Del resto, l’influenza della capacità visiva e immaginativa sulla elaborazione matematica è confermata dalle affermazioni di Richard Feynman, premio Nobel per la Fisica, che dice di iniziare a pensare in termini di astratta rappresentazione visiva che poi traduce in termini matematici. Studi su persone normali, sottoposte a compiti creativi, mostrano all’elettroencefalogramma un incremento della coerenza delle oscillazioni elettriche tra aree nervose molto lontane tra loro a dimostrazione che la forte integrazione di circuiti diversi è la base biologica che sostiene il tipico comportamento creativo: l’allargamento degli orizzonti, il reclutamento di idee non immediatamente collegate, la rottura degli schemi. Infine, per consentire la produzione del pensiero divergente è necessario che il sistema che produce noradrenalina sia molto mobile.

* * *

È CAPITATO a tutti di trovare la soluzione a un problema dopo una bella dormita, in una fase di rilassamento, oppure dopo alcune ore o giorni, quando non ci si pensa più. Alcuni risolvono questioni, anche non piccole, in sogno, come si racconta sia successo a August Kekulé, eminente chimico tedesco, che nel 1865 mentre ragionava, senza risultati, sulla struttura del benzene, si addormentò e sognò un serpente che si mordeva la coda. Svegliatosi, immaginò che la struttura del benzene fosse ad anello e così ancora la concepiamo! Sapersi concentrare e quindi attivarsi su un problema è assolutamente necessario se si vuol provare a risolverlo, ma un eccesso di attivazione e quindi di stress può essere controproducente. Ricerche recentissime di Gary Aston-Jones, neuropsichiatra dell’Università della Pennsylvania, sul sistema che governa l’attivazione cerebrale, basato sui neuroni che producono noradrenalina, collocati in un’area del tronco dell’encefalo chiamata Locus coeruleus, dimostrano che il meccanismo della creatività comporta una continua bilancia tra attività fasica e attività tonica. Nella fasica si ha un picco nella produzione di noradrenalina che consente al cervello di selezionare il compito da affrontare e di concentrarsi con determinazione. Nella tonica, il livello di noradrenalina si abbassa e ciò consente una notevole capacità di reclutamento di idee e una maggiore capacità esplorativa del nuovo. Si tratta in sostanza di sapersi concentrare senza agitarsi e, al tempo stesso, di distogliere l’attenzione dal tema, rilassandosi in profondità, senza perdere la capacità di tornare al tema, ma possibilmente con in testa nuovi elementi sollecitati ad emergere proprio dalla fase di rilassamento. Le persone che usano regolarmente tecniche antistress e meditative, che sono basate proprio su questa capacità di concentrazione e rilassamento, acquisiscono un habitus mentale che consente loro una maggiore produttività intellettuale e, possibilmente, una maggiore creatività.

* * *

IL SOGNO e l’usignolo sono i due “modelli” da cui si spera di avere la soluzione del mistero della creatività. L’usignolo, col suo canto sempre diverso, è un ottimo modello perché ha un cervello molto più piccolo di quello umano. Più semplice quindi, scovare tra le strutture nervose, quella da cui sgorga la melodia sempre diversa e ricostruirne poi la struttura e il funzionamento.

Ma anche dalle ricerche sui sogni possono uscire scoperte. Durante questa fase nervosa, il cervello umano riduce in modo drastico la sua attività, “spegnendo” numerose strutture e riducendo di molto quindi le aeree dove indagare. In particolare, durante il sonno, si staccano sia le connessioni con le vie che portano le sensazioni e le strutture centrali che le elaborano e sia le connessioni con le strutture che elaborano e comandano le reazioni motorie. Si attiva, invece, solo quella parte di cervello che produce relazioni nuove tra le informazioni depositate. Che è l’essenza della creatività. Nonostante questi due modelli semplifichino molto il lavoro di ricerca, la creatività rimane ancora un mistero.

17/01/2017

ligna, lignorum, lignis

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bretagna

tunisi

favignana

pellestrina

finale emilia

bormio

bormio

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venezia

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rouen

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16/01/2017

ferra, ferrorum, ferris

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13/01/2017

macinando colore

Filed under: Foto Gallery,News — Daniele @ 10:46 am

teoria delle ombre e teoria della luce sul divano

Filed under: Foto Gallery,News — Daniele @ 10:43 am

31/07/2015

Dietro villa Barbariga

Filed under: News — Daniele @ 3:07 pm

Ho ritrovato un vecchio rilievo a vista (di circa 20 anni fa) di una splendida torre con orologio che si trova, in condizioni penose ed in completo abbandono, dietro villa Barbariga a Fiesso D’Artico. Già allora avevo fatto il rilievo perché volevo rivedere quel rudere rinascere… La grande studiosa di Ville venete Elena Bassi lo aveva attribuito a Giuseppe Jappelli… Ora sta quasi per crollare definitivamente senza che nessuno faccia qualcosa…

barbariga2

30/07/2015

f[r]ame

Filed under: News,Scritti — Daniele @ 8:52 am

link exhib photo

agosto 2015

 

Introduzione – Prof. Daniele Paolin – Responsabile progetto espositivo 

Il corso Processi e tecniche per lo spettacolo multimediale ha volentieri aderito all’invito del Direttore del Dipartimento di Progettazione, Prof. Roberto Favaro, ad una riflessione sul tema FAME/FEIM con particolare attenzione alla pronuncia ed al suo significato in lingua inglese: FAMA. Questo tema è stato sviluppato dagli studenti del biennio di specializzazione della Scuola di Nuove Tecnologie dell’Arte, nel corso del’A.A. 2014/15, in concomitanza con i preparativi per EXPO 2015 a cui la città di Milano ha dedicato sforzi organizzativi considerevoli.

Al tema della fama gli studenti hanno prestato un’attenzione del tutto particolare, innanzitutto come studiosi di nuove tecnologie, e poi come giovani “nativi digitali” particolarmente attenti, da un punto di vista critico, a fenomeni del tutto nuovi legati ai social network e a quella che viene comunemente definita “web-attenzione” in cui aspetti specifici e diffusi del concetto di “fama” inducono a comportamenti nei quali l’apparire diventa sempre più importante dell’essere.

Il fenomeno non è del tutto nuovo e già da qualche anno anche la letteratura psichiatrica si occupa di questi argomenti. Termini quali I.A.D. più in generale (Internet Addiction Disorder – dipendenza dalla rete, disturbo da discontrollo degli impulsi) e più in particolare S.N.D. (Sindrome Narcisistica Digitale) sono tutt’ora oggetto di ricerca e di studio. Secondo questi studi, la rete partecipativa (definita web 2.0) incoraggerebbe lo sviluppo della cultura narcisistica, arrivando a fenomeni parossistici sconcertanti come la web-tv personale online 24 ore su 24 o le cosiddette “impronte digitali” (digital footprints) lasciate in giro sui vari social per essere ri-conosciuti.

Esiste anche un quoziente numerico (chiamato QDOS) che calcola il numero di contatti per avere approvazioni, riconoscimenti o conferme e funziona quasi come un antidepressivo tecnologico o come vetrina per la propria vanità o per la ricerca di un non bene identificato successo: una sorta di digito ergo sum, come è stato definito.

L’approccio al tema della fama è stato dunque motivo di un’analisi minuziosa ed ogni studente ha intravvisto la possibilità di coinvolgere una platea molto più vasta nelle sue riflessioni attraverso i nuovi linguaggi dell’arte. Quasi un’autocritica da parte di nuove tecnologie che pur se è vero che hanno portato metodi innovativi di comunicazione e diffusione della cultura, d’altro canto possono portare ad una sorta di squilibrata “bulimia” tecnologica da cui è difficile uscire e che può presentare anche aspetti imprevisti molto pericolosi come ha ben evidenziato il film Disconnect di Henry Alex Rubin.

Queste considerazioni visive vogliono essere una sorta di segnale di pericolo, non spaventoso ma quasi ironico: un invito a valutare sempre e comunque la sostanziale differenza fra real-life e virtual-life e quindi evitare di confonderle o di creare equivoci e squilibrati mixaggi, come sostiene il sociologo e filosofo Zygmunt Bauman in un recente articolo:

[…]Va detto che il sopraccitato inventario dei vizi e delle virtù effettive e potenziali della suddivisione del Lebenswelt (“mondo della vita”) in un universo online e offline è tutt’altro che completo. […] Nonostante tutto quello che al momento si possa sostenere, una delle conseguenze meno allettanti riguarda il prezzo da pagare per i risultati più grandi ottenuti dall’universo online in termini di comodità, facilità, assenza di rischio e incoraggiando una tendenza a trapiantare le concezioni del mondo fatte a misura dell’ambiente online nel suo corrispettivo offline, a cui possono essere applicati a costo di un grande danno etico e sociale.

I temi

L’apparire e l’immagine di sé sono stati da subito oggetto di particolare attenzione ed analisi ma anche recepiti come centro di un neo narcisismo, ‘male’ psicologico dilagante, secondo gli esperti, che ha effetti negativi sulle relazioni personali ma anche come problema sociale, perché “i comportamenti narcisistici degli adulti – avvertono gli specialisti – minano le relazioni fra le persone, danneggiando l’efficienza di aziende e istituzioni”.

E “Lo schermo dello smartphone è la versione moderna del lago di Narciso, una superficie piatta, senza spessore, in cui ci si specchia. Con il selfie l’immagine viene rinviata su diversi canali e poi torna indietro: resta una continua ricerca della propria immagine”, spiega Paolo Chiari, segretario scientifico del Centro milanese di psicanalisi. Il narcisismo, continua l’esperto, “è la ricerca di un sé grandioso che ha bisogno di essere visto e ammirato, ma che nasconde carenze”.

Quali carenze? Soprattutto culturali, esistenziali, sociali, critiche: ci sono disastri personali, legati, all’incapacità di costruire relazioni, e sociali perché al narcisista manca la capacità di cooperare, di stare e lavorare insieme. Ha bisogno solo di primeggiare.

Attraverso l’uso dell’immagine, aggiunge Chiari, “testimonia un esserci che non è realmente sentito: insomma una conferma di esistere che viene rimbalzata attraverso dei mezzi, apparentemente di ‘comunicazione’, ma che in realtà restano in superficie e non permettono di creare vere relazioni”.

Il titolo dell’intervento espositivo prende il via dal termine “fame” che a seconda lo si legga in italiano o in inglese, acquista significati diversi ma che accusano qualche complementarietà anche nell’arte: fame/fama.

A tale riguardo Eugenio Barba, uomo di teatro, disse:
“Il sogno di godere della celebrità e il bisogno di sfuggire la miseria: la vita del teatro per secoli si è mossa fra queste due sponde trovandovi energia e consistenza.

Fama? Fame?

Le due sponde non sono un bivio. Opposte, ma sostanzialmente identiche, sono l’una complementare all’altra.”

Ed Andy Warhol, il famoso artista della Pop Art, negli anni ’60 ebbe a dire:

Nel futuro ognuno sarà famoso al mondo per quindici minuti!”. Quasi una profezia.

I significati

L’ambiguità del termine italiano/inglese di “fame” (fama) è interrotta nel titolo da una [r] che la trasforma in “frame” il cui senso letterale è “cornice”, “struttura”, ma come sempre capita nella lingua inglese, a seconda si riferisca ad ambiti e campi diversi, assume altri significati: nel cinema “fotogramma” o immagine fissa, in informatica “pacchetto di bit che costituisce un’unità strutturata di informazioni”, nella semantica “codifica un oggetto, un evento o una situazione identificando le unità lessicali che lo denotano e i ruoli semantici che vi partecipano” ecc.

Fame-frame è apparso da subito un collegamento fra fama ed immagine-frammento video, uno dei settori di applicazione degli studenti della Scuola di Nuove Tecnologie dell’Arte.

Frame è quindi la cornice in cui siamo inseriti, la cornice entro la quale veniamo visti, la struttura che regge il fatto di esistere digitalmente: gli attimi che si succedono altro non sembrano che frame delle nostre vite.

Sequenza dopo sequenza “the life goes on”… e senza una cornice ci si sente nessuno: somma paura contemporanea dell’anonimato, un anonimato che non lascia tracce. Che cosa di più adatto e di più utile se non l’informatica, la rete, il digitale per lasciar traccia?

Ma frame, nell’accezione informatica, altra materia alla base degli studi di Nuove Tecnologie dell’Arte, ha il significato di “pacchetto di bit che costituisce un’unità strutturata di informazioni” e cioè la traduzione di piccoli concetti che si fanno comunicazione, mostra, esposizione, come in questo caso.

Le riflessioni

Il gruppo di studenti che ha indagato su questi temi, lo ha fatto in maniera critica soprattutto nei riguardi degli strumenti, dei device dei social in rete, della tv commerciale, mondi che si stanno contaminando in una sorta di forsennata corsa verso l’omologazione, la convenzione culturale e sociale, l’appiattimento e relativo consumo seriale. Non risparmiando neppure numerosi aspetti dell’Arte “ufficiale”. La discussione è stata serrata e le individualità hanno ben presto lasciato il posto ad una convergenza sostanziale, soprattutto sui contenuti. Interessante è stato soprattutto il dipanarsi di sfaccettature e sfumature che inizialmente sembravano inconciliabili. Si è verificata una sorta di metamorfosi che il filosofo Mario Costa, studioso dell’impatto delle nuove tecnologie sull’arte e sull’estetica, ha così ben definito in una recente intervista:

Più che “artisti tecnologici” io preferisco chiamarli “ricercatori estetici”. […] non sono affatto convinto che la funzione dell'”artista”, di quello che una volta era l'”artista”, oggi sia venuta meno, sia inutile e debba essere eliminata. Sostengo, viceversa, che il ruolo dell’artista sia profondamente mutato. Gli artisti tecnologici o i ricercatori estetici devono oggi rinunciare – e lo fanno già – ad alcune componenti fondamentali di quello che era l’artista della tradizione. Loro lavorano prevalentemente sul piano del concetto […] Il concetto è condivisibile. Questo significa che la produzione può essere, deve essere, e in molti casi lo è già, una produzione concertata, collettiva. Significa che la proprietà esclusiva dell’opera è una nozione arcaica, così come lo stile che una volta caratterizzava l’artista […] è l’artista che tende assolutamente alla proprietà esclusiva dell’opera. Molti artisti tecnologici hanno già superato, nei fatti, tutto questo.[…] Oggi, a mio avviso, l’estetica deve molto di più tematizzare, molto di più problematizzare la situazione che le nuove cose, le nuove tecniche, le nuove energie ci hanno costretto a considerare. Una vera e propria riflessione estetologica su quello che sta avvenendo oggi […]

Siamo continuamente bombardati da stimoli, opinioni, notizie, report, indagini; bocche, occhi che parlano, si sovrappongono in un rumore di fondo, un noise che disorienta, fisicamente, psicologicamente. E quando cerchiamo di isolare qualche segnale, rendendolo vagamente più distinto e comprensibile, sovente la sensibilità dell’artista viene pervasa da una sorta di delusione di contenuti, di vacuità del messaggio, dell’inutilità della comunicazione. La fame di bellezza, la fame di cultura, la fame di sapere viene disattesa, in uno spreco comunicativo che avrebbe altro valore sociale.

Non resta che l’isolamento: il costruirsi uno spazio, una sorta di “tana”, quello che è stato definito uno pseudo-ambiente parzializzante ed esclusivo. Un foro stenopeico attraverso il quale analizzare particella per particella, non considerando più un “tutto”.

Logica conseguenza è rivolgersi all’io, un’attenzione che in teoria avrebbe un’importanza fondamentale sfrondandola dai pericolosi gorghi dell’egoismo, dell’egocentrismo e del narcisismo. Il continuo richiamo, però, della giungla sociale, al suo corteggiamento consumistico, alle sue promesse, alle sindromi di celebrità e successo, porta definitivamente verso l’alterazione della propria immagine: si scopre, a torto o a ragione, di essere pieni di difetti, fisici, psicologici, caratteriali, esistenziali, che poco hanno a che fare con la vera omologazione e che pertanto sfocia nella paura di non essere nessuno.

Nasce il bisogno di “ritoccare” la propria immagine, di renderla “fruibile”, diffondibile, fino ad alterarne i dati. Quello che era il vanto di Odisseo cade miseramente dentro una vera e propria fobia… Complice quel dispositivo piatto continuamente illuminato che è lo schermo: solo oltrepassandolo saremo qualcuno! Uno Stige al contrario…

Esiste un Prima e un Dopo: prima di attraversare quel monitor riusciamo ad avere quella che viene definita spontaneità, probabile vera essenza personale; ma attraversato quel velo di Maya (Der Schleier der Maya, dunque l’invenzione di Arthur Schopenhauer, coniata per la prima volta ne Il mondo come volontà e rappresentazione) non siamo più noi, né nella postura, né nell’atteggiamento e quindi non ci assomigliamo più, siamo altro, quell’altro che cerchiamo di essere e che ritocchiamo in continuazione. Lo si può notare in quel fenomeno ormai abusato quale il selfie: invasione di autoritratti dalla spontaneità eccessiva, smisurata, sbilanciata, che strizza l’occhio al compiacimento goliardico nel ridicolo della sua inutilità.

Ovvio che la proliferazione di qualsiasi fenomeno venga assorbita da un “mercato”, sempre più attento alle metamorfosi, pur se malate, della società contemporanea..

« In tutte le civiltà umane esiste l’idea di mercato come luogo deputato all’incontro tra persone con bisogni diversi che desiderano scambiare beni e servizi. La caratteristica dei mercati di oggi è che lo scambio è guidato non dai bisogni, ma dal profitto. È pura ideologia pensare che la società possa funzionare al meglio lasciando i mercati liberi di perseguire il profitto, e che i mercati possano operare efficacemente soltanto limitando le interferenze al minimo. Le regole che governano il funzionamento dei mercati sono stabilite dai potenti; il nostro dramma è aver permesso che questo accadesse »

(Raj Patel, Il valore delle cose e le illusioni del capitalismo, p.27)

Il mercato dunque s’impadronisce di questi fenomeni e li razionalizza in un “allevamento”, dentro metaforiche stie da cui è quasi impossibile uscire e che costringono a produrre in continuazione.

Ma è proprio la rete che ci apre gli occhi: come riferisce il sito Wired, lo studente di architettura André Ford ha elaborato un’idea del professor Thompson, suggerendo la “soluzione pollo senza testa.”

Questa implica la rimozione della corteccia cerebrale dell’animale per attenuare le sue percezioni sensoriali, in modo che possa essere allevato nelle condizioni di affollamento senza tanta sofferenza. Il tronco encefalico rimarrebbe intatto, in modo da permettergli la crescita.

Il ragionamento alla base della proposta del signor Ford è stato duplice: soddisfare la crescente domanda di carne e migliorare il benessere dei polli togliendo ad essi la sensibilità agli orrori della loro esistenza.

Una produzione de-mente… Ma è altrettanto ovvio che la rete, se da un lato permette l’informazione e la diffusione di concetti, notizie, idee, dall’altro può essere bugiarda: è un altro aspetto delle facili credenze e delle facili opinioni che ci si possono fare in rete. “Siamo caduti nella rete” è una metafora di una altrettanto probabile realtà.

Qualsiasi bugia, scientifica o meno, viene assorbita, digerita proprio come il mangime per i polli nella stia. Pertanto molte persone, in assoluta bona fede e possedendo nella maggior parte dei casi anche un livello di cultura medio alta, diventano strumenti inconsapevoli di un meccanismo perverso, che in molti casi ritornerà anche a distanza di anni, perché essendo la Rete bulimica, la notizia verrà dimenticata in un giorno, ma ritornerà.

Solo il vecchio metodo della citazione della fonte e della sua competenza potrà fermare questa bulimia? Oppure il rinnovamento di un metodo critico nell’intero sistema educativo?

Meccanismo perverso bulimico e voyeristico, dunque, che ci porta a filtrare la realtà, tanto da confonderla, nella sua apparenza spesso così fedele, con l’esistenza stessa.. Si è quello che si vede, ma non è proprio così… Passiamo indifferentemente fra una realtà suggerita ed una vissuta in modo eccessivamente disinvolto, sempre più spesso confondendole.

L’arte e la sua percezione sono vittime quasi dello stesso processo: le grandi firme fagocitano ogni tensione creativa sul cosiddetto “mercato”. Il divismo in architettura e arte ha letteralmente inebriato e polarizzato tutte le attenzioni dei media: il nome più che la creazione e le sue motivazioni attraggono il cosiddetto “grande pubblico” ormai degente, ma la realtà dello studio quotidiano di migliaia di studenti che si apprestano a diventare degli operatori nei settori artistici è fatta di solo sacrificio, di abnegazione, di impegno, nell’ombra degli studi, degli atelier, delle aule, di biblioteche, senza nessun tipo di riconoscimento e valorizzazione sociale o di approvazione mediatica e sempre più spesso con un futuro incerto o nebuloso. Ma si dimentica che molti di loro saranno i protagonisti della futura cultura: anonime creature, anonime figure che produrranno bellezza quand’anche non la producano già. Esiste una dissociazione palese, in questo caso, fra arte-fatto e art-ista, risultato di fenomenologia pubblica dicotomica.

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